martedì 28 maggio 2024

Corso base di scrittura creativa: Lezione 14 La critica teatrale teatro italiano classico

Il burbero benefico
Il burbero benefico di Carlo Goldoni coprodotto dalla Compagnia Molière - Bon Voyage Produzioni - Arte e Spettacolo Domovoy - Festival Teatrale di Borgio Verezzi, nella versione fattane dal regista Matteo Tarasco, con protagonista un superlativo Mariano Rigillo (Geronte, il burbero benefico), è uno spettacolo complesso ed a tesi, caratterizzato da un allestimento che a tratti ci ha fatto ritornare alla mente il glorioso periodo del teatro delle cantine romane, quello della cosiddetta seconda avanguardia italiana, tra gli anni sessanta e settanta.
Capolavoro goldoniano per definizione, la sua fortuna internazionale lo portò da Parigi (dove debuttò) a Vienna, intingendolo in salsa musicale valenciana.
Trasformato in questa occasione quasi in una commedia con musiche, impeccabilmente composte da Riccardo Benassi e Nicola Sacchelli, appare da subito chiaro l’intento del regista di mescolare generi e stili per reinterpretare metaforicamente il settecento. Un secolo al tramonto (che sarà segnato dalla Rivoluzione Francese) relegato letteralmente in un magazzino inservibile della Storia, di sapore vagamente alla Ceroli, di cui rimangono i bancali e le casse entro cui abitano i personaggi.
Un mondo ed una società che Geronte definisce “abisso orribile”, viene qui fatto rivivere nell’eccesso cromatico dei costumi, ora sobri, di un decoro passatista nero sino alla stilizzazione, ora eccentrici all’inverosimile, pieni di sfarzo ma vuoti di valori, che trasformano le persone in “cartoon” grotteschi (con note addirittura, involontariamente, manga).
Il “burbero” Geronte rifiuta un mondo senza più regole, caratterizzato dal conflitto tra essenza ed apparenza, preferendogli il gioco senza trucchi degli scacchi. Ma quando la crisi finanziaria in cui versa il nipote Leandro e la necessità di maritare la giovane nipote Angelica, incalzano con passi da tragedia, allora il burbero si trasforma in “benefico” e corre in loro soccorso. Una sorta di ultima spiaggia della storia.
Ma al di là delle scene famigliari in stile “i panni sporchi è meglio lavarli in famiglia”, due partiti comunque si confrontano sullo sfondo: quello di chi non è mai stato abituato a lavorare (il partito di certa nobiltà parassitaria) e quello di chi ha sempre lavorato. Di questi ultimi sarà il mondo futuro ed il riscatto sociale.
Uno spettacolo con tutta la tavolozza dei colori, strillato e suadente, frivolo e serioso, caricaturale e naturalistico, che può suscitare antipatie e consensi, ma non può certo passare inosservato. 
Con Anna Teresa Rossini (Martuccia), Giancarlo Conde’ (Dorval), Fabrizio Vona (Leandro), Francesco Di Trio (Valerio), Federica Marchettini (Costanza), Salvatore Rancatore (Piccardo) e Serena Marinelli (Angelica).

IL SINDACO DEL RIONE SANITA'

Anche se ogni spettacolo ha una propria dimensione, che non va confrontata con quella di altri, in queste mie riflessioni faccio un’eccezione e proverò a recensire in maniera comparata due diversi spettacoli accomunati da un’eguale tematica: l’analisi del fenomeno camorristico. Si tratta della pièce di Eduardo De Filippo “Il sindaco del rione Sanità” e di quella ricavata dal bestseller di Roberto Saviano “Gomorra”, andate in scena, a pochi giorni una dall’altra, in un piovosissimo dicembre, nell’ambito della stagione artistica del Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona.
Cominciamo dalla prima pièce. Una volta, per evitare che il patrimonio si disperdesse fra un numero di eredi eccessivo e di fatto risultasse così esiguo per ciascuno, da compromettere l’integrità del potere di un casato, si usavano pratiche certo discutibili: figli cadetti avviati alla carriera militare, figlie femmine in convento. Non sono certo nostalgico di quelle barbare pratiche, ma non posso evitare di constatare a quali danni stia portando, oggi, la scelta opposta, almeno per le opere teatrali di Eduardo: una volta esclusivo appannaggio suo, poi patrimonio solo del legittimo erede di sangue e d’arte, infine, lasciate libere per molti interpreti. Come una eredità democraticamente mal gestita, essa si sta frantumando in un ruscellamento artistico che, né singolarmente né nella sommatoria, ricorda più la forza del compatto fiume fluente di acqua, di idee, di poesia e di umanità che era il teatro di Eduardo.
Lo spettacolo a cui ho assistito, infatti, non è che un pallido ricordo di una pièce che, quando 50 anni fa comparve sulle scene, in una Napoli non certo migliore di quella di oggi, suscitò certo sensazione, ma non l’avido compiacimento nazionale ed internazionale di rivoltarsi nella sporcizia dei temi di cui trattava. Prodotto dalla Diana, con protagonista e regista Carlo Giuffré e comprimari Piero Pepe, Aldo De Martino e Alfonso Liguori, l’allestimento, con scene, luci e costumi naturalisticamente convenzionali, risulta registicamente privo di idee (salvo quella, sciagurata, di una aggiunta finale, in cui due killer vestiti da Blues Brothers fanno fuori il coprotagonista). Di una lunghezza smisurata (tre ore e mezza) e di una lentezza esasperante, con un compiacimento naturalistico dei dettagli, dilatati fino al tempo reale, che stride con l’essenzialità e l’incisività dell’alta arte scenica, quello a cui abbiamo assistito è un tipico spettacolo a mattatore (ma il pur bravo Carlo Giuffré non è certo Eduardo), secondo il peggior vizio di alcuni anziani senatori teatrali italiani. Il ritratto del grande attore teatrale da vecchio è quello di chi, via via, è diventato insofferente del regista, che “lo costringe, lo comprime e lo mette a servizio della scena”, e decide di fare da solo. Il risultato è quello che, costui, dà il peggio di se stesso, poiché è libero di dare sfogo      al proprio lato oscuro di istrione, fatto di un immenso egotismo narcisistico, che usa il testo per permettersi infinite passerelle di “bravura”.
E quindi la seconda pièce. Prodotto dal Teatro Mercadante, il testo di Roberto Saviano e di Mario Gelardi, che ne è anche il regista, con Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Ernesto Mahieux, Giuseppe Miale di Mauro e Adriano Pantaleo, fa parte del cosiddetto teatro politico di denuncia. Si tratta di un genere molto datato, purtroppo rimesso in scena oggi secondo le desuete convenzioni del teatro povero degli anni sessanta e settanta, a metà tra la denuncia del comizio di piazza e l’ostentata esibizione della sporcizia del degrado ambientale, molto fisico, anfetaminico, crudo e costantemente urlato. Il testo, purtroppo, non è sostenuto da un linguaggio nitido e rivelatore, ma risulta involuto e farraginoso, indirizzato più verso il monologo che verso il dialogo, un linguaggio oscuro, che non aiuta a capire e ad orientarsi nella complessità della materia trattata. La scarsa padronanza con la tecnica teatrale (Saviano è un giornalista), fa si che mancando il respiro di uno sviluppo organico, il lavoro denunci piuttosto un’operazione di assemblaggio di brani, flash di cinque storie emblematiche di camorra (in sé molto poco credibili, aggiungo io).
Ed ecco un confronto, forse impossibile, ma lo stesso doveroso. Da una parte un maestro, che riesce a parlarci di cose profonde, utilizzando il linguaggio nitido della semplicità e della chiarezza, quale strumento indispensabile di mediazione per permettere la comprensione universale del messaggio. La camorra di Eduardo non è evidenziata dal trattamento sociologizzato dei dati criminali (che tanto piace a chi vuol rimanere scandalizzato dalla macchia d’olio tentacolare che si allarga a tutto comprendere), ma mira a far conoscere le problematiche sociali attraverso l’umanità dei suoi protagonisti e ci riesce se, alla gigantesca dimensione del problema analizzato, corrisponde la gigantesca dimensione umana dei personaggi della storia, impegnati in un grandioso, quanto assurdo ed irrealizzabile, sforzo di cambiamento del mondo. Esattamente il contrario di quanto fa Saviano che, esaltando la dimensione schiacciante del dato malavitoso, evidenzia la pochezza della dimensione umana dei personaggi, e finisce per ridurli a macchiette, esemplificative di sfumature diverse di criminalità, unificate, per semplificazione, sotto il comune denominatore di camorra. Da una parte uno spettacolo di vero teatro, ridotto a finire sottovoce a causa di un allestimento non eccellente, dall’altra una operazione multimediale culturale (libro, spettacolo teatrale e film) che, sulle scene, si riduce ad un pamphlet di denuncia urlato, ma che non riesce mai ad ergersi alla dignità di un vero prodotto di arte scenica.
Resta solo la tragedia del tempo presente. Che sta tutta fuori delle sale teatrali. I tempi sono cambiati. Se era vera la leggenda metropolitana di un Eduardo omaggiato dal camorrista, a cui la storia si ispirava, che lo veniva a trovare in camerino e con cui consumava “’na tazzulella ‘e café”, oggi la cruda realtà è quella di un Saviano (al quale va tutta la nostra solidarietà) costretto a girare sotto scorta, per le minacce avute dai clan camorristici di cui parla. Deve esserci qualcosa di veramente malsano (e che non comprendo), se bisogna scortare uno scrittore che racconta storie che tutti conoscono (primi tra tutti politici, polizia e magistrati) e non quei tutori della legalità, che questi crimini sono impegnati a perseguire quotidianamente ed a costruire con fatica, giorno per giorno, un mondo di buongoverno minimo e praticabile.
Cosa è cambiato in questi cinquant’anni che distanziano le due pièce? Una volta il pericolo era costituito dal rischio che il successo del grande progetto criminale diventasse una società strutturata, alternativa a quella legale, un antistato nello stato; oggi il pericolo è che la dimensione quantitativa della economia malavitosa eroda concretamente quote crescenti a quella legale, fino ad inglobarla e costringa lo stato a convivere suo malgrado con essa, pur di continuare ad esistere.

Io l'erede

“Io l'erede” uno dei testi “minori” di Eduardo De Filippo, allestito dal Teatro Stabile di Calabria e dal Teatro Franco Parenti di Milano, con la accurata ma un po’ intellettualistica regia di Andre’e Ruth Shammah, andato in scena al Teatro Chiabrera di Savona è l’ultima commedia della “Cantata dei giorni pari”; dopo questo dramma, i giorni si fanno dispari, il destino più amaro, la spensieratezza della gioventù si allontana per sempre. Nel ruolo del protagonista Ludovico Ribera c’è un buon Geppy Gleijeses, uno degli allievi di Eduardo, a cui in passato concesse i diritti di alcune sue commedie e che, per il centenario della nascita, ha celebrato il maestro interpretando “Il figlio di Pulcinella”. La trama è paradossale, con echi pirandelliani, ma, come tanta parte del teatro di Eduardo, un incalzante quanto “naturale” eloquio giustificativo la rende plausibilissima. Racconta la storia agrodolce di Amedeo Selciano (interpretato da un misurato Umberto Bellissimo) che, mentre è riunito con la sua famiglia, da sempre impegnata in opere di beneficenza, per commentare i recenti funerali di Prospero Ribera, ospite in quella casa per trentasette anni, grazie alla generosità del vecchio Selciano, vede presentarsi in casa il figlio di Prospero, Ludovico, che esige il posto del padre, a suo avviso reso improduttivo dalla dannosa magnanimità della famiglia. Una dialettica irresistibile, minacce e ricatti per celati amori clandestini ed affari poco puliti, faranno il resto ed il nuovo parassita otterrà la sua immeritata eredità. Viene subito da dire che una storia così regge (e risulta perfino simpatica e plausibile) se collocata in una realtà meridionale tutta particolare, a Torino o a Milano risulterebbe poco credibile. Perchè dunque cercare di toglierle questa peculiarità partenopea per volerla invece innalzare a emblema di una realtà universale? L’operazione può trasformarsi in un boomerang. Ma se uno si aspettasse un allestimento nella cifra di un “certo eduardismo”, rimarrebbe deluso. L’aspirazione della regista è maggiore, almeno nelle intenzioni. Tentando di imitare l’operazione che fece Strelher nel dopoguerra, quando riuscì ad innalzare Goldoni al di sopra della commedia vernacolare di maniera, creando un allestimento emblematico (si pensi all’Arlecchino ed alle Baruffe Chiozzotte), La Shammah per innalzare l’autore napoletano al livello di vero e proprio classico, finisce per rifuggire come la peste ogni aspetto naturalistico della sua opera e lo ingessa in una candida essenzialissima scena di Gian Maurizio Fercioni, di sapore vagamente ronconiano, e veste i suoi personaggi con fumettistici costumi che fanno tanto Arcibaldo e Petronilla, Bibì e Bibò, il Capitan Cocoricò e la Tordella. Tutto gradevolissimo, se letto in chiave “linea chiara” alla Ergé, intendiamoci, come le suggestive luci che sono di Marcello Jazzetti sapientemente mixate alle musiche di Michele Tadini, ma tutto ciò, cosa c’entra con Eduardo? Infatti, così facendo, si reca un grande torto all’autore perchè a tratti si perde per strada il naturalismo comico, che è però uno dei valori più alti della sua drammaturgia. Insomma mirando soprattutto al cervello la Shammah perde il cuore e la pancia, per fare la commedia sofisticata, perde la farsa partenopea che è l’humus in cui affonda le sue radici Eduardo. Gli interpreti, tenuti tutti a freno dalla regista, danno comunque una buona prova di professionalità d’insieme, senza acuti ma senza scivoloni: Marianella Bargilli (Adele), Margherita Di Rauso (Caterina), Antonio Ferrante (Ernesto), Ferruccio Ferrante (Lorenzo De Ricco), Gabriella Franchini (Margherita), Milvia Marigliano (Dorotea Selciano), Valentina Tonelli (Bice).

L'uomo prudente

Buona apertura alla 44^ edizione del Festival Teatrale di Borgio Verezzi con lo spettacolo “L’uomo Prudente” di Carlo Goldoni prodotto da APAS Produzioni S.r.l. unitamente al Festival Teatrale di Borgio Verezzi, per l’organizzazione di Angela de Ruvo, nell’adattamento fattone da Franco Però (che ne firma anche la regia coadiuvato dall’assistente Annalisa Insardà) e da Paolo Bonacelli (che è anche il protagonista Pantalone). Testo “minore” goldoniano, che proprio in quanto tale ne svela ancora di più la straordinaria grandezza, questa tragica-commedia sviluppa una trama elementare, per mettere a nudo il disordine familiare che regna in casa Bisognosi, dove vivono il mercante Pantalone, la sua seconda moglie Beatrice ed il figlio Ottavio, i quali, per poter fare il comodo loro con i propri spasimanti, gli disubbidiscono e arrivano fino al tentativo di avvelenarlo. Il piano criminoso non andrà al suo fine poiché la cagnetta Perlina assaggia prima del padrone una “panatella” all’arsenico a lui destinata. La scena stilizzatissima di Andrea Viotti, che firma anche, in contrasto, i costumi rigorosamente d’epoca, è un omaggio al caro siparietto brechtiano, che fa tanto anni sessanta, ma questa volta moltiplicato per otto ed illuminato con contenuta funzionalità dalle luci di Franco Nuzzo. Tra un aprirsi e chiudersi di siparietti recita con verve e ritmo naturalistico un ottimo cast di attori: Federica Di Martino (Beatrice, moglie di Pantalone), Hossein Taheri (Lelio, cavalier servente di Beatrice), Francesco Gerardi (Ottavio, figlio di primo letto di Pantalone), Alessandra Raichi (Diana, amante di Ottavio), Elena Ferrari (Rosaura, figlia di primo letto di Pantalone), Simone Ciampi (Florindo, amante di Rosaura), Paola Giglio (Colombina, serva in casa Pantalone), Roberto Tesconi (Brighella, servitore di Pantalone - Arlecchino, servo in casa Pantalone - un Giudice), Giacomo Rosselli (un cuoco - un notaio). Le musiche di Antonio Di Pofi, segnalano gli stacchi scenici, tra habanere e plot sonori espressionistici che echeggiano anch’essi, ad abundatiam, atmosfere vagamente weilliane. In questo tessuto sonoro si snoda una recitazione antitetica al resto del gruppo, quella di un grande Bonacelli, marcatamente antinaturalistica. Questo fatto dapprima sconcerta il pubblico, colpito da quel suo tono caratteristico di bonfonchiamento sornione ai limiti della intelligibilità, ma infine lo cattura magistralmente, costringendolo ad una riflessione supplementare, che è al contempo recitazione e commento, testo e nota esplicativa a margine, immedesimazione e straniamento. Ci sembra questo il merito principale della regia comunque attenta e pulita di Franco Però, che trova altri punti di forza sulla scena anche nella deliziosa e disarmante stupidità della Rosaura di Elena Ferrari, e nelle contrapposte personalità introverse - estroverse dei Brighella – Arlecchino di Roberto Tesconi (beniamino del pubblico in quanto, da finalese, giocava in casa). La commedia (ma quanta tragica amarezza nel lieto fine) si chiude in tribunale sull’arringa di Pantalone che, per mettere a tacere ogni possibile scandalo che potrebbe di riflesso danneggiarlo, ottiene dal Giudice l’assoluzione degli imputati e sentenzia che la “prudenza insegna al bon nochier a schivar i scoggi dele disgrazie e trovar el porto dela vera felicità”. La “giusta” punizione penserà lui stesso ad infliggerla ai suoi criminosi famigliari: farà sposare tra loro i rispettivi amanti di moglie e figlio. E’ proprio su questo scenario di vita domestica, che sa tanto di tana di belve “umane”, che Goldoni pone in definitiva l’accento: è sempre la belva più grossa che domina il branco, anche se nasconde questa sua implacabile ferocia dietro l’apparente bonomia di un uomo prudente.

Le bugie con le gambe lunghe
Le premesse c’erano tutte per una grande serata al Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona: in primis un testo stupendo di Eduardo De Filippo Le bugie con le gambe lunghe, che partendo da una puntuale fotografia della situazione del secondo dopoguerra italiano, con un colpo d’ala maestoso, riesce subito ad innalzarla al rango di emblema universale. Quindi c’era l’attesa interpretazione di Luca De Filippo, su cui gravava, come ogni sera, la responsabilità di essere il degno erede di cotanto padre e, non ultimo, il viatico del magnifico colpo d’occhio di una scena rapidamente realista, firmata da Gianmaurizio Fercioni e Giacomo Costa, a cui faceva da sfondo la rievocazione pittorica di una Spaccanapoli ideale luogo del pensiero, assurta a riepilogo generale di ogni tribolata scena urbana, affollata di metri cubi, sporcizia e degrado, che salgono fino a coprire il cielo. Non macerie, pure storicamente plausibili, che potevano avere un subdolo fascino ruinista, ma un quasi olfattivo realismo sudicio di palazzate che puzzano di risciacquatura di mille fondi di pentola. Una città che cresce come un tumore incontrastabile, ormai definitivamente lontana dall’eroico afflato coloristico futurista di un Boccioni entusiasta della modernità edilizia. 
Ma sono bastate poche decine di minuti per fare svanire l’incanto. Avevamo di fronte un protagonista che, cercava di imitare la geniale recitazione understatement di Eduardo, ma appariva solo sottotono, quando non addirittura svogliato, contornato da una compagnia il cui livello recitativo era francamente poco più di quello di una filodrammatica dilettantesca. Scorreva dinanzi a noi una messa in scena fatta di una quiete lobotomizzata, con la regia latitante, che abdicava al suo importante ruolo. Non potevamo accontentarci di essere gli spettatori di chi accetta di buon grado il poco nobile compito di essere solo il giudizioso amministratore di un grande capitale lasciatogli in eredità, una fortuna (di sessanta commedie) che frutta da sola, senza dover correre il rischio di investire ed intraprendere per farla fruttare al meglio, impegnata al più in un ruolo organizzativo-capocomicale, che fa ben quadrare i bilanci. Se si pensa da dove è partito tutto, da Scarpetta, passando all’inarrivabile trio dei De Filippo (Eduardo, Peppino e Titina), per giungere fino a Luca, da un ramo, e a Luigi, dall’altro. 
Ma altolà ai rimpianti. Parliamo del buono. Cioè del testo, che ha passato i sessant’anni ma non li dimostra. Figlio legittimo di quello che ho sempre considerato il terzo Nobel (quello mancato) del teatro italiano: dopo Pirandello, ma prima di Fo. Eduardo, più che in altre opere, riesce a creare un sottotesto fitto di allusioni, il prodotto di un genio che conosce a tal punto tutti i segreti scenici da far parlare il non detto, il non scritto, addirittura l’appena pensato dei suoi personaggi. Il protagonista vive il suo posto nella vita, come l’attore che lo interpreta vive la sua parte in scena. La sua filosofia è quella del minimo indispensabile. Entrambi, per esistere, non hanno bisogno di eseguire un solo gesto in più dello stretto indispensabile. Il loro è uno stato semivegetativo, una sorta di afasia gestuale, che nella vita è la proverbiale pigrizia mediterranea, sulla scena è una tecnica di recitazione che ha fatto scuola ed ha affascinato un genio come Orson Wells che considerava Eduardo, quando interpreta i suoi personaggi, il più grande attore (antihollywoodiano, aggiungiamo noi) del mondo. 
Ciò che pensa e non dice l’infelice protagonista della vicenda, un filatelico fallito, che mangia pane e spago, è che sia possibile vivere con dignità la propria miseria. Fa questo con naturalezza e consapevolezza, nessun eroismo in ciò, ma non riesce proprio ad assoggettarsi all’idea che per vivere siano indispensabili continue menzogne, magari dette a fin di bene. Lui a dire le bugie non ci riesce. Tutto congiura contro l’onestà del protagonista, contro la sua modestia rassegnata. Chi lo circonda non accetta che lui possa quietamente restare un perdente-sincero, non può. Che lo voglia o no questa nullità umana è il tassello di un microcosmo più grande che funziona come un orologio, lui è il granello di polvere che blocca gli ingranaggi. E le bugie, iniziano la loro grande galoppata. Se lo caricano in sella, vogliono corromperlo, ridurlo al livello del loro lato oscuro, innalzarlo allo stato di necessità menzognera. Tutto si regge sul non detto, sul taciuto, sul bisbigliato. La verità ha le gambe atrofizzate, ti fa restare lì, non vai da nessuna parte. Muori solo e odiato da tutti. Ti conviene? 
Il protagonista, suo malgrado, farà fortuna, si sistemerà, realizzerà il sogno non suo di essere un vincente-bugiardo. Ma in fin dei conti chi lo saprà mai? Basta lasciar passare il tempo e le bugie non smascherate diventano convenzionalmente verità accettate da tutti. Un patrimonio di verità, alla cui base c’è un delitto taciuto. Le bugie hanno le gambe davvero lunghe, portano lontano. Ma lontano da chi e da dove?

MADAMA DI TEBE

Scena: Parigi. Location: cabaret di Montmartre e grandi magazzini di superlusso. Protagonisti: da un lato una coppia di ricchi americani in viaggio di affari ma avidi di mondanità, dall’altro un bel ladro-gigolò ed un’intrigante cartomante. Macchietta: Angelo Michele, detto Michel…Angelo, pittore fallito ma stilista di moda di talento. Sviluppo: gran groviglio di innamoramenti intrecciati e risoluzione con lieto fine. Nuova danza: il sensuale proibitissimo tango. RefrainSpesso a cuori e picche/ ansiose bocche/ chiedono la verità,/ principi e plebe/ vengono qua,/… Avete già indovinato? Non era difficile. Perché certamente avrete chiuso la strofa: Madame di Tebe/ le carte fa. Già, Madama di Tebe, questo il titolo dell’operetta andata in scena presso il Teatro Chiabrera di Savona nell’allestimento impeccabile della più blasonata compagnia italiana, l’InScena di Corrado Abbati. Calibratissimo libretto e stupende musiche di Carlo Lombardo, con l’adattamento l’interpretazione e la regia di Corrado Abbati (che inevitabilmente interpreta con consumata leggerezza lo stilista Angelo Michele Bisson), scene semplici ma gradevolissime ed organizzazione generale impeccabile di Stefano Maccarini, centinaia di splendidi costumi firmati da Artemio, coreografie tecnicamente complesse ma misuratamente spolverate di paprika di Francesco Frola e la direzione musicale di Marco Fiorini. Applausi meritatissimi a scena aperta ed ovazioni finali con bis per tutti gli interpreti: Corrado Abbati (Angelo Michele Bisson), Antonella Degasperi (Miche, madama di Tebe), Domingo Stasi (Babà, ladro parigino), Marta Calcaterra (Clara, ricca americana), Fabrizio Macciantelli (Blackson, suo marito), Angela Baviera (Madame Picon, madre di Clara), Matteo Mazzoli (Pitou), Marco Fortini (Il Lionese), Elena D'Angelo (Casco d'oro), Giuseppe Cortis (De Flers), Denis Zannani (Desmoulins), Piergiuseppe Doldi (Lillo Bianco), Stefano Arati (Piccadilli), e naturalmente Apache, Gigolettes, Mannequins, Suonatori: Stefania Brianzi, Nicla Del Vecchio, Azzurra Di Meco, Marta Martin, Angela Tripodi, Marianna Vasone, Giovanni Castania, Vincenzo Rubino, Lino Costi, Sandro Guidetti, Daniele Marasi, Marco Mora, Emilio Rolli. Due ore di melodie indimenticabili di Carlo Lombardo dei Baroni Lombardo di San Chirico, napoletano di nascita milanese di affari. Che, siccome un nome lungo così non gli bastava, pensò bene di usare anche gli pseudonimi di Leon Bard e Leblanc. Tempra d’uomo eccezionale scomparso a novant’anni compiuti, eroe della grande guerra. Ma poiché le date la dicono lunga, se con il fucile sparava, con la testa componeva musica. La Duchessa del Bal Tabarin è del 1917, Madama di Tebe del 1918, opere di tale livello da meritargli il titolo di padre dell’operetta italiana. Ma anche grande divulgatore e uomo d’affari, che sapeva far diventare oro tutto quello che toccava. Partito come semplice direttore d’orchestra operistica (Mascagni, Verdi), Lombardo presto diventa il direttore di fiducia di Johann Strauß jr. ed il collaboratore ricercatissimo di tutti i più grandi operettisti della sua epoca (Cuscinà, Pietri, Ranzato, Mascheroni, Costa, Simoni), anche in virtù della suo talento di diffondere l’operetta italiana nel mondo grazie alla sua premiata Casa Musicale Lombardo con sedi a Milano, Berlino e Parigi. Ed anche al Chiabrera è stato un successo. Perché ancora oggi l’operetta, che sembra quanto di più datato, anacronistico ed ingenuo ci possa essere, regge magistralmente sui palchi di tutto il mondo? Proprio perché parla con convinzione di un mondo che non esiste più e forse non è mai veramente esistito. Un mondo artificiale? Forse, ma nel senso più nobile, arte-fatto, fatto con arte. Basta stare al gioco e seguire le sue regole, che vanno solo minimamente aggiornate, ma mai stravolte o, e sarebbe imperdonabile, modernizzate. Se la scena è finzione, l’operetta è finzione al quadrato. Se il mondo dello spettacolo è rischio di perdizione, allora l’operetta ne è la radice quadrata. Sembra leggerezza e follia, ma in realtà c’è un grande equilibrio nei suoi ingredienti e nel finale si arriva, sempre, a planare con i piedi per terra. Al termine, un attempato distintissimo pubblico, felice di aver sognato, anche se per una sola sera, sciama festoso canticchiando, fasciato in soavi eleganti cappotti e morbidissime pellicce (rigorosamente non ecologiche, indubbiamente politicamente scorrette, ma che ricordano certamente i bei tempi andati). Ma allora… il mondo dell’operetta esiste…

Questa sera si recita a soggetto
Ci ha riservato autentiche soddisfazioni questa 44^ rassegna verezzina che ha presentato con la produzione della Compagnia Gank e del Festival Teatrale di Borgio Verezzi un ottimo allestimento di “Questa sera si recita a soggetto” di Luigi Pirandello con la attenta regia di Alberto Giusta (coadiuvato dall’assistente Carlo Sciaccaluga) che interpreta anche il protagonista Hinkfuss.

E’ sempre un piacere assistere ad uno dei capolavori di Pirandello, e in particolar modo a questo, in cui sono così abilmente e apertamente trattati lo scavo nel gioco scenico, tra commedia-melodramma-tragedia, il rapporto tra finzione e vita, la dialettica di genere tra forma letteraria e testo teatrale.
La vicenda, pretestuale, è notissima, ma stupisce ed avvince sempre. Un regista riafferma il suo primato scenico su tutto (l’autore) e su tutti (i personaggi-attori). Ha deciso un passo spiazzante, che va verso il passato ed il futuro contemporaneamente, gli attori devono recitare senza un testo scritto, a soggetto, sul canovaccio di una tremenda storia di gelosia, sullo sfondo di una “clausura” tipicamente siciliana. In questo testo di “teatro nel teatro” così come nei Sei personaggi (che lo precede di circa dieci anni) alla fine delle sue ricerche Pirandello trova sempre il dramma.
Ma cosa rende questo allestimento della Gank così speciale? Le scene e i costumi di Laura Benzi sono certo funzionali (un siparietto messo di traverso, occupa gran parte della scena) come le luci di Sandro Sussi, ma è soprattutto l’ottima prova recitativa di un gruppo di attori giovani che fanno sulla scena l’autentica differenza: il corposo Davide Lorino (Verri), il trasognato Massimo Brizi (Sampognetta), la volitiva Mariella Speranza (Ignazia), la sventurata Alessia Giuliani (Mommina), la tragica Cristina Pasino (Chanteuse), la spensierata Barbara Alesse (Totina), la impetuosa Ernesta Argira (Nenè), i tre avvenori Alex Sassatelli, Manuel Zicarelli e Carlo Sciaccaluga (Pomarici, Sarelli e Pometti).
Non è facile poter contare su un cast di questo livello (e nessuno di loro è ancora particolarmente famoso), dove la versatilità di ciascuno e la coralità del gruppo è la vera cifra stilistica. Ci è riuscito Alberto Giusta che con la Compagnia Gank sta rendendo possibile il sogno di un teatro di repertorio dei grandi autori classici. L’agilità dell’allestimento rende facile la circuitazione, la perfetta rispondenza all’originale ed il rigore nel rispetto del testo rendono interessanti il suo allestimento anche per un utilizzo didattico, la scioltezza scenica e la verve degli attori assicurano cento minuti ininterrotti di piacere scenico. E’ questo il teatro classico di cui abbiamo bisogno. Un enorme in bocca al lupo per il futuro.

TRILOGIA DELLA VILLEGGIATURA
Abbiamo assistito al Teatro Chiabrera di Savona all’ennesimo riallestimento, ad opera di Toni Servillo, di uno dei grandi capolavori teatrali di tutti i tempi, la cosiddetta Trilogia della villeggiatura, commedia sofisticata, dall'impianto ricco di azione e contenuti, scritta da Carlo Goldoni come il succedersi di tre testi in sequenza, cadenzati dal tempo ritmato delle Smanie, passando a quello rilassato delle Avventure per concludersi con quello rallentato del Ritorno. Goldoni utilizza il convenzionale racconto della triste educazione sentimentale di quattro giovani, per segnalare il suo vero intento, dichiarato fin dalla prefazione, vale a dire “l’ambizione de’ piccoli di voler figurare coi grandi, questo è il ridicolo che io ho cercato di porre in veduta”. Il tema centrale, già denunciato dal titolo, è la visibilità sociale che può fornire l’andare in vacanza, nel caso a Montenero, luogo di villeggiatura de' Livornesi, poche miglia distante da Livorno dove essi vivono abitualmente. In un’epoca di catastrofe economica mondiale generata a catena dalla banale insolvenza di mutui non saldati, ci fa specie pensare come il desiderio di vivere al di sopra delle proprie possibilità (amorose ed economiche), sia una costante della condizione umana. Il pericolo della dissipazione economica, causata dal fatuo desiderio di ben figurare in società, in realtà è il pari del sogno amoroso irrealizzabile, ma non per questo perseguito con la stessa indefessa pervicacia. Amore ed interesse sono un tutt’uno inestricabile. L’avventatezza amorosa va di pari passo con quella economica: entrambe fanno battere forte il cuore, ma portano alla rovina. Ridimensionare il proprio vissuto amoroso ed economico non sarà la strada maestra di una impossibile felicità idealizzata, ma eviterà almeno una tragedia sicura. C’è amarezza in ciò, per questa felicità negata, che anche il democratico Goldoni non è disposto a concedere. Ma l’amarezza sfocia nella saggezza concreta, nella riacquisita consapevolezza dei propri limiti economici e della propria condizione sociale. Il regista-attore Toni Servillo, interprete molto amato da una schierata parte del pubblico sia cinematografico che teatrale, al suo atteso debutto in questo spettacolo coprodotto dai Teatri Uniti e dal Piccolo Teatro di Milano, come dire il gotha italiano, delude l’aspettativa di chi, come me, era andato a teatro a vedere un allestimento segnalato come particolarmente significativo, insignito della altosonante dignità di prodotto da esportazione internazionale quale portabandiera della cultura italiana nel mondo. Cosa mi ha deluso? E’ presto detto. Manca la magia. E senza di quella non c’è vera arte. Ma non solo. Se si può perdonare la mancanza di genialità scenica, più difficile da accettare è l’assenza di una spiccata vena stilistica personale o almeno di una originale profondità di lettura. Di chi la colpa? Non solo di Servillo, investito probabilmente di una responsabilità al di sopra delle sue forze. E’ anche colpa delle convenzionali scene di Carlo Sala, dei mille volte già visti costumi di Ortensia De Francesco, delle solo funzionali luci di Pasquale Mari.Molto convenzionale è inoltre l’interpretazione degli attori, a cominciare da quella dello stesso Servillo, che interpreta Ferdinando lo scrocco, cavaliere del dente, con una gigionesca caricaturalità fatta di eccessi farseschi, che sortiscono più l’effetto di irritare che di far ridere, e che stride con il resto dell’impianto recitativo, tutto sommato naturalistico e mai sopra le righe, se non per quella fretta forsennata di dizione che rende parte del testo incomprensibile e sta diventando quasi una moda del cattivo modo di recitare contemporaneo “all’italiana”. Se si vuole modernità interpretativa, si possono comunque evitare le servette goldoniane che recitano con le mani ai fianchi, le vecchie vedove vogliose di rimaritarsi che infilano solo luoghi comuni sul farsi prendere in giro dagli scrocconi o i tonti resi così goffamente stupidi da renderli poco credibili nel loro ruolo di appetibili partiti per delle nozze, sia pure di convenienza. Purtroppo tutto questo nello spettacolo c’è. E dire che il casting a disposizione era di primordine, a cominciare da un sempre sottotono Paolo Graziosi (Filippo)E poi Anna Della Rosa (Giacinta, figlia di Filippo), Chiara Baffi (Brigida, cameriera di Giacinta), Andrea Renzi (Leonardo, amante di Giacinta), Francesco Paglino (Paolino, cameriere di Leonardo), Rocco Giordano (Cecco, servitore di Leonardo), Salvatore Cantalupo (Berto, servitore di Leonardo), Tommaso Ragno (Guglielmo, amante di Giacinta), Eva Cambiale (Vittoria, sorella di Leonardo), Betti Pedrazzi (Sabina, sorella di Filippo), Mariella Lo Sardo (Costanza), Giulia Pica (Rosina, nipote di Costanza), Marco D'Amore (Tognino, amante di Rosina)Gigio Morra (Fulgenzio, amico di Filippo).

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