mercoledì 15 maggio 2024

Corso base di scrittura creativa: Lezione 13 La critica teatrale teatro italiano moderno

AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA

Parlare di Aggiungi un posto a tavola, andato in scena presso il Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona, è come ripercorrere la storia della grande commedia musicale italiana.
Quasi cinquant’anni fa, tra il 1973 e il 1974, Pietro Garinei e Sandro Giovannini scrissero con Iaia Fiastri un soggetto ispirato al romanzo After me the deluge (Dopo di me il diluvio) di David Forrest, affidando la composizione delle musiche ad Armando Trovajoli, il grande jazzista romano che, dagli anni '50 in poi, si era specializzato in colonne sonore. Le coreografie furono affidate al grande Gino Landi. Il costo complessivo della messa in scena dello spettacolo era, per quei tempi, molto alto, circa 250 milioni di lire, impiegati soprattutto per la realizzazione delle magnifiche scenografie di Giulio Coltellacci, autore anche dei costumi, montate sul palcoscenico girevole del Teatro Sistina di Roma. Di particolare effetto furono le scene della costruzione dell'arca e del diluvio. Lo spettacolo ebbe il suo titolo a pochi giorni dal debutto, in seguito a una votazione della compagnia che preferì Aggiungi un posto a tavola a La bis bisarca e a Concerto per prete e campane.
La trama è assai accattivante. Don Silvestro (Gianluca Guidi), parroco di un immaginario paese di montagna, riceve una telefonata del Padreterno in persona (la voce registrata di Renato Turi), che gli comunica l'intenzione di mandare sulla terra il secondo diluvio universale. Come un novello Noè, riceve l'incarico di costruire un'arca di legno, per mettere in salvo tutti gli abitanti e gli animali del paese. Ma portare a termine il suo compito con l'aiuto degli scettici compaesani non sarà impresa facile. Di Don Silvestro è perdutamente innamorata Clementina (Valentina Cenni), figlia del sindaco del paese, Crispino (Enzo Garinei) ostile al parroco. A complicare il tutto si segnala l’arrivo in paese di Consolazione (Marisa Laurito), una donna di facili costumi che rischia di distrarre dai doveri coniugali gli uomini del paese, proprio nella notte prima del diluvio, destinata dal Signore alla procreazione. Un miracolo però ristabilisce l'ordine, e sarà l'impotente Toto (Marco Simeoli) che con un rigurgito di virilità terrà impegnata Consolazione. Don Silvestro, infine, convincerà Dio a scongiurare il diluvio, e nel gran finale, attorno ad una tavola imbandita per la festa, scenderà una colomba bianca. È per Lui che si aggiunge il famoso posto a tavola.

Quella a cui assistiamo è la quinta edizione dello spettacolo, a ribadire l’incredibile successo della pièce, andata in scena il 2 dicembre 2009, in occasione del sessantennale del teatro Sistina di Roma e, visto il grande successo, resterà in cartellone sino all’aprile 2011. La regia è quella originale di Pietro Garinei e Sandro Giovannini ma con la ripresa teatrale di Gino Landi e la supervisione di Johnny Dorelli (che fu protagonista delle prime tre edizioni). Ma si tratta di un ideale passaggio di testimone infatti l’attuale protagonista, Gianluca Guidi, è figlio di Lauretta Masiero e di Giorgio Guidi (vero nome di Johnny Dorelli). Si tratta di tre ore di godimento puro, in quella che, da molti anni, risulta essere una delle migliori stagioni teatrali savonesi. Un bagno di ricordi e di emozioni sempre attuali, in cui convivono il come eravamo e l’oggi. Una visione semplice (ma non per questo riduttivamente ingenua e meno coinvolgente) della divinità amica, che oggi, in un’epoca di crescente relativismo, andrebbe cantata a gran voce, anche con la bellezza delle sue canzoni, in coro con questi ottimi interpreti. 

BANDA 4.0

L’anteprima del Festival Teatrale di Borgio Verezzi, giunto quest’anno alla sua 53^ edizione, ci riserva sempre delle deliziose serate teatralmusicali. Quest’anno è la volta de La Banda Osiris, nome che è un omaggio a Wanda Osiris. In una piazza sant’Agostino che registra un sold out strepitoso, si esibisce nel suo spettacolo antologico intitolato “Banda 4.0”. L’allusione ad Industry 4.0 (la quarta rivoluzione industriale) è chiaro, ma qui va letto senza punto e fa 40, tanti quanti sono gli anni di questo gruppo di clown musicali italiano fondato a Vercelli nel 1980 dai fratelli Gianluigi e Roberto Carlone, da Giancarlo Macrì e Mario Sgotto a cui è subentrato Sandro Berti. Gianluigi Carlone canta, suona il flauto ed il sax soprano. Roberto Carlone suona il basso, la tastiera ed il trombone. Giancarlo Macrì suona le percussioni ed il basso tuba. Sandro Berti suona la chitarra, il mandolino ed il trombone. Il gruppo è diventato famoso, per la partecipazione ai programmi di Rai 3 “Parla con me”, di Rai 1 “Pista!”, per le sigle dei programmi di Rai Radio 2 Caterpillar e Catersport, per “Una finestra sul mondo della musica”, per “Banda Osiris gran turismo”, per “Musica coi fiocchi” e per l’ironico “Concerto di Capodanno 2005” con l’Orchestra del Conservatorio di Genova. La Banda ha inoltre scritto ed eseguito colonne sonore per il teatro, per documentari e per il cinema tra cui “Anche libero va bene” di Kim Rossi Stuart, “L’imbalsamatore” e “Primo amore” di Matteo Garrone per cui ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino e il David di Donatello nel 2004. Ma indubbiamente il meglio la Banda lo dà nei suoi spettacoli teatrali, dove l’interazione col pubblico scandisce i ritmi della sua comicità colta e popolare al tempo stesso. I quattro forniscono un’ironica rilettura di spettacoli teatrali, sigle radiofoniche e televisive, colonne sonore, libri, insomma quelle che sono state le tappe più significative dell’iter creativo del gruppo. Un viaggio attraverso brani musicali che intersecano stili e generi (pop, classica, jazz, rock, world, new age, ecc), assemblati tra loro da libere associazioni, poesia visiva ed ermetica, racconti, melodie strappalacrime, aneddoti, poesie, umorismo surreale e continue sorprese che sono elementi essenziali della cifra stilistica che caratterizza il loro lavoro. Tra musica seria e musica comica, citazioni colte e trash d’annata, canzoni d’autore e jingle pubblicitari, la Banda Osiris dà vita ad un concerto, un recital, uno spettacolo. Applausi e bis. Strarciultrameritatissimi.

Brachetti ciak si gira!

Recensire uno spettacolo dove la visualità e l’ironia sono tutto, è un esercizio di stile che mette alla prova più severa. Perché lascia letteralmente “senza parole” questo Brachetti, ciak si gira! di e con Arturo Brachetti, andato in scena al Civico Teatro G. Chiabrera di Savona, con la grande produzione italo-franco-canadese di Montreal Just Pour Rire France ed Ad Arte Spettacoli srl Murciano Iniziative, e la regia di Serge Denoncourt, che già lo diresse nel suo penultimo trionfale e colossale L’uomo dai mille volti.
Il cinema, naturalmente, è solo un pretesto, perché in scena, mutatis mutandis, c’è sempre, solo e soprattutto lui, con la sua cura maniacale per il dettaglio, che lo porta a cambiare in due ore di spettacolo più di settanta personaggi. Non c’è tempo per appassionarsi ad uno di essi, che già la magia visiva ti porta altrove, come su di una giostra caleidoscopica delle meraviglie.
Citiamo a titolo esemplificativo: Maciste, Quasimodo, Nosferatu, Zorro, Mary Poppins, Crudelia De Mon, Baby Jane, Lon Chaney, Fu-Manchu, Charlie Chaplin e Judy Garland, Carmen Miranda e Gene Kelly, Humprey Bogart e Ingrid Bergman, Liza Minnelli, King Kong, Darth Vader, Gollum, Harry Potter, ecc.
Poi ci sono naturalmente i pezzi di bravura del suo repertorio classico: l’omaggio a Fellini, il cappello del nonno che può servire a creare mille personaggi e quel pezzo di antologia di “si fa trasformismo con quasi niente”, una vera e propria sfida all’intelligenza visionaria di tutti i trasformisti.
Ci viene da sorridere pensando che questa 
performance a cui hanno assistito 1200 occhi esterefatti, venga definita da Arturo un allestimento leggero (“solo” due tir di scene e costumi), per permettere la tournée anche in piccoli teatri. Una mano santa per noi poveri provinciali, costretti solitamente a cercarlo nei grandi palcoscenici delle metropoli. Non è che, ultimamente, manchino a Brachetti (una delle star internazionali italiane più note in tutto il mondo) le piazze importanti, ma quest’anno a Natale aveva promesso di essere nel piccolo ma celeberrimo palcoscenico delle Folies Bergère di Parigi, dove la sua stravagante pettinatura fumettistica a punteruolo è di casa. Noblesse oblige.
Per un personaggio mitico come lui, la biografia sconfina ormai nella leggenda (che da sapiente amministratore di se stesso contribuisce, se non proprio ad alimentare, a non smentire): come quella di aver imparato i giochi di prestigio da bambino in un seminario torinese da un prete illusionista, o di aver debuttato con successo a soli 15 anni ed essere già una vedette a 20 anni al Paradis Latin di Parigi. Ma è leggenda o verità? Di certo ci sono, naturalmente, i premi prestigiosi vinti, come il Molière, o il riconoscimento del Guinness Book of Records che lo annovera come il più veloce trasformista del mondo.
In Italia, molti l’hanno imparato a conoscere come il regista de I corti, Tel chi ‘l telun, e Anplagghed di Aldo Giovanni e Giacomo. Che spettacolo doveva essere assistere a quelle prove!

E PENSARE CHE C'ERA IL PENSIERO

Il Giorgio Gaber al femminile di Maddalena Crippa, interprete di E pensare che c'era il pensiero, ha centrato il bersaglio, riproponendo la sua rilettura del mondo poetico e civile, senza dover imitare un suo stile, così personale, da renderlo pressoché unico nel panorama nazionale.
Andato in scena al Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona, il testo di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, prodotto dal Tieffe Teatro Milano Stabile di Innovazione diretto da Emilio Russo in collaborazione con la Fondazione Giorgio Gaber, ha la regia di Emanuela Giordano, si avvale del pianoforte e degli arrangiamenti di Massimiliano Gagliardi, coadiuvato dal coordinamento musicale di Arturo Annecchino. La voce della Crippa è sostenuta dalle coriste Chiara Calderale, Miriam Longo, Valeria Svizzeri.
L’attrice e cantante, strelheriana, che ha al suo attivo un cospicuo ed impegnativo repertorio canoro (Schönberg Kabarett di Peter Stein, Pierrot lunaire di Le Moli, Canzoni italiane e Canzonette vagabonde degli anni '20, '30 e '40), affronta la prova con sicurezza e temperamento.
L’operazione non era priva di rischi, in quanto ci sono state numerose riproposizioni di successo dei testi di Gaber, promosse dalla Fondazione omonima che cura da anni la rassegna Milano per Gaber. Pensiamo ai successi di Un certo Signor G con Neri MarcorèSe potessi mangiare un’idea con Gioele Dix, Io quella volta lì avevo 25 anni di Claudio Bisio, Chiedo scusa al Signor Gaber di Enzo Iacchetti, ma questa ci sembra particolarmente riuscita ancorché inedita, poiché il nuovo approccio passa attraverso un altro punto di vista, un'altra sensibilità.
Gaber, riletto al femminile, non perde niente. La forza delle sue parole è capace di stare nel presente e di anticipare il futuro, e l’onestà di questa ricerca fa sì che, tutti gli inevitabili anacronismi delle mille battaglie perse, si sciolgano davanti al desiderio di riascoltarlo.
La forma del teatro-canzone scorre via veloce e così, come un deja vu, ecco La sedia da spostare / Mi fa male il mondo / L'equazione / Il dilemma / Se io sapessi / La realtà è un uccello / Qualcuno era comunista / Io come persona / Sogno in due tempi / La presa del potere / E pensare che c'era il pensiero / Destra e sinistra.
Non tutto è oro colato, il tempo si sente, e forse una sforbiciata sarebbe servita. Ma non sono solo canzonette. Soprattutto a vincere è la forza di chi, come si rigira la frittata, non è mai stato ascrivibile né alla destra né alla sinistra. Gaber, per fortuna è di Gaber, quindi un valore per tutti noi. E per questo suo coraggio ha molto pagato di persona, sorte che tocca a tutti coloro che, in nome di un ideale superiore, non si assoggettano alla semplificazione ideologica di una scelta di campo. Nell’Italia che sogna di essere bipolare senza riuscirci, queste persone sono la pietra d’inciampo del luogocomunismo, un fastidio per chi non vuole leggere le contraddizioni sempre più evidenti ed ammettere una sconfitta collettiva dell’umano. Viva Gaber e la “sua” Maddalena.

GOMORRA


Anche se ogni spettacolo ha una propria dimensione, che non va confrontata con quella di altri, in queste mie riflessioni faccio un’eccezione e proverò a recensire in maniera comparata due diversi spettacoli accomunati da un’eguale tematica: l’analisi del fenomeno camorristico. Si tratta della pièce di Eduardo De Filippo “Il sindaco del rione Sanità” e di quella ricavata dal bestseller di Roberto Saviano “Gomorra”, andate in scena, a pochi giorni una dall’altra, in un piovosissimo dicembre, nell’ambito della stagione artistica del Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona.Cominciamo dalla prima pièce. Una volta, per evitare che il patrimonio si disperdesse fra un numero di eredi eccessivo e di fatto risultasse così esiguo per ciascuno, da compromettere l’integrità del potere di un casato, si usavano pratiche certo discutibili: figli cadetti avviati alla carriera militare, figlie femmine in convento. Non sono certo nostalgico di quelle barbare pratiche, ma non posso evitare di constatare a quali danni stia portando, oggi, la scelta opposta, almeno per le opere teatrali di Eduardo: una volta esclusivo appannaggio suo, poi patrimonio solo del legittimo erede di sangue e d’arte, infine, lasciate libere per molti interpreti. Come una eredità democraticamente mal gestita, essa si sta frantumando in un ruscellamento artistico che, né singolarmente né nella sommatoria, ricorda più la forza del compatto fiume fluente di acqua, di idee, di poesia e di umanità che era il teatro di Eduardo. Lo spettacolo a cui ho assistito, infatti, non è che un pallido ricordo di una pièce che, quando 50 anni fa comparve sulle scene, in una Napoli non certo migliore di quella di oggi, suscitò certo sensazione, ma non l’avido compiacimento nazionale ed internazionale di rivoltarsi nella sporcizia dei temi di cui trattava. Prodotto dalla Diana, con protagonista e regista Carlo Giuffré e comprimari Piero Pepe, Aldo De Martino e Alfonso Liguori, l’allestimento, con scene, luci e costumi naturalisticamente convenzionali, risulta registicamente privo di idee (salvo quella, sciagurata, di una aggiunta finale, in cui due killer vestiti da Blues Brothers fanno fuori il coprotagonista). Di una lunghezza smisurata (tre ore e mezza) e di una lentezza esasperante, con un compiacimento naturalistico dei dettagli, dilatati fino al tempo reale, che stride con l’essenzialità e l’incisività dell’alta arte scenica, quello a cui abbiamo assistito è un tipico spettacolo a mattatore (ma il pur bravo Carlo Giuffré non è certo Eduardo), secondo il peggior vizio di alcuni anziani senatori teatrali italiani. Il ritratto del grande attore teatrale da vecchio è quello di chi, via via, è diventato insofferente del regista, che “lo costringe, lo comprime e lo mette a servizio della scena”, e decide di fare da solo. Il risultato è quello che, costui, dà il peggio di se stesso, poiché è libero di dare sfogo al proprio lato oscuro di istrione, fatto di un immenso egotismo narcisistico, che usa il testo per permettersi infinite passerelle di “bravura”.
E quindi la seconda pièce. Prodotto dal Teatro Mercadante, il testo di Roberto Saviano e di Mario Gelardi, che ne è anche il regista, con Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Ernesto Mahieux, Giuseppe Miale di Mauro e Adriano Pantaleo, fa parte del cosiddetto teatro politico di denuncia. Si tratta di un genere molto datato, purtroppo rimesso in scena oggi secondo le desuete convenzioni del teatro povero degli anni sessanta e settanta, a metà tra la denuncia del comizio di piazza e l’ostentata esibizione della sporcizia del degrado ambientale, molto fisico, anfetaminico, crudo e costantemente urlato. Il testo, purtroppo, non è sostenuto da un linguaggio nitido e rivelatore, ma risulta involuto e farraginoso, indirizzato più verso il monologo che verso il dialogo, un linguaggio oscuro, che non aiuta a capire e ad orientarsi nella complessità della materia trattata. La scarsa padronanza con la tecnica teatrale (Saviano è un giornalista), fa si che mancando il respiro di uno sviluppo organico, il lavoro denunci piuttosto un’operazione di assemblaggio di brani, flash di cinque storie emblematiche di camorra (in sé molto poco credibili, aggiungo io).

Ed ecco un confronto, forse impossibile, ma lo stesso doveroso. Da una parte un maestro, che riesce a parlarci di cose profonde, utilizzando il linguaggio nitido della semplicità e della chiarezza, quale strumento indispensabile di mediazione per permettere la comprensione universale del messaggio. La camorra di Eduardo non è evidenziata dal trattamento sociologizzato dei dati criminali (che tanto piace a chi vuol rimanere scandalizzato dalla macchia d’olio tentacolare che si allarga a tutto comprendere), ma mira a far conoscere le problematiche sociali attraverso l’umanità dei suoi protagonisti e ci riesce se, alla gigantesca dimensione del problema analizzato, corrisponde la gigantesca dimensione umana dei personaggi della storia, impegnati in un grandioso, quanto assurdo ed irrealizzabile, sforzo di cambiamento del mondo. Esattamente il contrario di quanto fa Saviano che, esaltando la dimensione schiacciante del dato malavitoso, evidenzia la pochezza della dimensione umana dei personaggi, e finisce per ridurli a macchiette, esemplificative di sfumature diverse di criminalità, unificate, per semplificazione, sotto il comune denominatore di camorra. Da una parte uno spettacolo di vero teatro, ridotto a finire sottovoce a causa di un allestimento non eccellente, dall’altra una operazione multimediale culturale (libro, spettacolo teatrale e film) che, sulle scene, si riduce ad un pamphlet di denuncia urlato, ma che non riesce mai ad ergersi alla dignità di un vero prodotto di arte scenica.
Resta solo la tragedia del tempo presente. Che sta tutta fuori delle sale teatrali. I tempi sono cambiati. Se era vera la leggenda metropolitana di un Eduardo omaggiato dal camorrista, a cui la storia si ispirava, che lo veniva a trovare in camerino e con cui consumava “’na tazzulella ‘e café”, oggi la cruda realtà è quella di un Saviano (al quale va tutta la nostra solidarietà) costretto a girare sotto scorta, per le minacce avute dai clan camorristici di cui parla. Deve esserci qualcosa di veramente malsano (e che non comprendo), se bisogna scortare uno scrittore che racconta storie che tutti conoscono (primi tra tutti politici, polizia e magistrati) e non quei tutori della legalità, che questi crimini sono impegnati a perseguire quotidianamente ed a costruire con fatica, giorno per giorno, un mondo di buongoverno minimo e praticabile.
Cosa è cambiato in questi cinquant’anni che distanziano le due pièce? Una volta il pericolo era costituito dal rischio che il successo del grande progetto criminale diventasse una società strutturata, alternativa a quella legale, un antistato nello stato; oggi il pericolo è che la dimensione quantitativa della economia malavitosa eroda concretamente quote crescenti a quella legale, fino ad inglobarla e costringa lo stato a convivere suo malgrado con essa, pur di continuare ad esistere.

IL BIRRAIO DI PRESTON
Ingrato compito quello di recensire la pièce “Il birraio di Preston”, riduzione teatrale del romanzo omonimo di Andrea Camilleri, andato in scena nella Stagione di Prosa del Teatro G. Chiabrera di Savona con la produzione del Teatro Stabile di Catania, grazie alla riduzione ed all’adattamento teatrale dello stesso Andrea Camilleri e di Giuseppe Dipasquale che ne firma anche la regia.
Perché? Semplice: ormai da troppe volte mi tocca assistere a delle messe in scena poco significative od incisive, che nulla hanno a che fare con una vera logica del teatro e della scrittura teatrale, ma rispondono piuttosto ad esigenze altre: vuoi la furbizia di cavalcare un tema filosofico à la page, vuoi la necessità di avere comunque un nuovo spettacolo che riproponga lo stile a fatica conquistato, vuoi il desiderio di perseverare nella riproposizione di un repertorio regionale.
Per cui mi trovo nell’ingrato compito di non poter parlare bene di attori ed attrici importanti, che tanto hanno dato alla scena italiana, ma che oggi hanno perso mordente ed incisività. Per un poco si evita di farlo, ma poi, inevitabilmente, bisogna recensire ed allora… il discorso cambia. In questa stagione ciò è già successo con il grandissimo Glauco Mauri e con il rispettabilissimo Moni Ovadia, ma è chiaro che non può durare all’infinito.
Oggi succede con i grandi Pino Micol, Giulio Brogi e Mariella Lo Giudice, protagonisti di questo spettacolo. “Il birraio di Preston”, è l’emblema del teatro italiano “anni dieci”. Un prodotto, né più brutto né più bello di tanti altri che riempiono oggi le stagioni teatrali nostrane, che si avvale di scene curate, quelle di Antonio Fiorentino, di costumi professionalmente corretti, anche se naturalisticamente convenzionali, di Gemma Spina, di musiche funzionali di Massimiliano Pace e di luci meticolose di Franco Buzzanca, e che ha un cast numericamente assai ampio e di tutto rispetto (oltre ai summenzionati Ester Anzalone, Alberto Bonavia, Chiara Cimmino, Cosimo Coltraro, Margherita Mignemi, Mimmo Mignemi, Franco Mirabella, Stefano Nicolosi, Marcello Perracchio, Gian Paolo Poddighe, Gianluca Ridolfo, Giampaolo Romania, Sergio Seminara, Angelo Tosto). Già ma, vedendo questo lungo susseguirsi di siparietti alla siciliana, la domanda scatta spontanea: ma il teatro vero, quando arriva?
Questo “birraio” è proprio lo specchio della mediocrità teatrale italiana di oggi. Proprio come l’opera che cita (fortunatamente sepolta nel dimenticatoio) e che qualcuno si ostina a voler mettere in scena, contro il buonsenso di tutti. E’ lo specchio esatto di una implosione della scena italiana, che non è la scarsità di sbigliettamento dovuta alla crisi economica (gli abbonati del Chiabrera non sono calati, ma qualche volta i vuoti in platea si cominciano a notare), ma una crisi di idee e di creatività. Ci si rifugia in ibridi musicali, riduzioni da romanzi, escamotage vari. Ma la realtà è sotto gli occhi di tutti: il teatro italiano fa acqua da tutte le parti. Non ha più veri autori, scarseggia di registi davvero all’altezza e ha un parco attori, in parte da rottamare, che paralizzano con la loro ingombrante presenza il non più rinviabile rinnovamento. Il problema, ormai, è così palese che non è più possibile ignorarlo. Anche il pubblico più disponibile, come è sempre stato quello del Chiabrera, ha smesso di applaudire. Il “birraio” si è svolto in un silenzio, da mancanza di applausi, imbarazzante. Non c’è più il reverenziale rispetto per il mostro sacro, non basta più il prestigio della cornice mondana in cui si svolge il rito, si sbadiglia platealmente in sala e qualcuno abbandona persino il teatro dopo il primo atto.
Oggi tocca a Camilleri, e da teatrante, siciliano e fan del suo Montalbano, mi dispiace tre volte farlo. Il romanzo nulla toglie e nulla aggiunge alla sua fama, ma il passaggio in scena ha ben più di una lacuna. Ma è inutile chiedere a Montalbano di indagare per capire cosa non ha funzionato. La verità è sotto gli occhi di tutti quelli che… la vogliono vedere.

IL SIGNORE DEL CANE NERO STORIE SU ENRICO MATTEI

La Quinta Edizione del Festival del Giallo, organizzato dall’Associazione Culturale Cattivi Maestri presso la Fortezza del Priamar di Savona, con il contributo della Regione Liguria, dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Savona, della Fondazione De Mari – Cassa di Risparmio di Savona e di Tirreno Power, segna la svolta della maturità, assumendo finalmente una dimensione di caratura nazionale. Sei giorni fitti di appuntamenti in cui si sono susseguiti conversazioni, presentazioni librarie, giochi, concerti, film, cene con delitto e spettacoli teatrali. Specialmente in campo teatrale ci è sembrato che si sia toccato il livello più alto. Ciò è avvenuto in virtù della presenza di un eccellente spettacolo, Il signore del cane nero, storie su Enrico Mattei, di e con Laura Curino, per la regia di Gabriele Vacis. Prodotto dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino e dall’Associazione Culturale Muse, in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa, il testo si ispira ad uno spettacolo ideato dal Piccolo Teatro in collaborazione con Eni. L’uomo in questione è Enrico Mattei, creatore dell’ENI, il cui logo è appunto un cane nero a sei zampe, che fu nella sua epoca, uno degli uomini più potenti d'Italia.Il pretesto narrativo è un necrologio sui generis fatto da una sua dipendente, una sempliciotta ai limiti della sanità mentale, tale Celestina che, come spesso succede nella finzione teatrale, racconta come può, ma apertamente, senza tanti giri di parole, la sua verità su Mattei, in particolar modo quella della sua fine tragica in un incidente aereo, mai pienamente chiarito, quella che lei sente come causata da un attentato non avendone però le prove documentali definitive. Sullo schermo e nel racconto scorrono le immagini e le tappe folgoranti di una carriera e di un pensiero politico e sociale originalissimo, quelle del Mattei partigiano, deputato, regista della creazione di una forte industria energetica nazionale. Una figura imprenditoriale carismatica, capace di imporre l’Italia come soggetto economico di primo piano anche sui mercati internazionali, esercitando una grande controllo sull’industria grazie alla forza del metano, sull'agricoltura grazie ai concimi chimici, sul mercato finanziario grazie alle aziende a partecipazione statale. Ma con i successi emergono anche le critiche, le polemiche con la stampa, prima tra tutte quella con Indro Montanelli sul Corriere della Sera.In scena la presenza di Laura Curino è impeccabile, come tale è la regia di Gabriele Vacis, che ci racconta questa saga in maniera epica e poetica, con venature di malinconia e di umorismo, in cui affiorano le speranze dell’Italia appena uscita dalla guerra, le forti tensioni politiche e le disillusioni con la sua tragica fine a Bescapè, con un incidente aereo ancora oggi misterioso.Uno spettacolo davvero notevole, esempio emblematico di quel fare teatro di narrazione usando l’affabulazione come strumento popolare e colto al tempo stesso, di cui Curino e Vacis sono i maestri italiani indiscussi.

Le Sorelle Materassi

La grande estate di Verezzi sforna, uno dietro l’altro, solo successi. E’ indifferente la provenienza. Può essere il mondo cinematografico nostrano, come Parenti serpenti di Carmine Amoroso nell’allestimento di Luciano Melchionna per Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro, ben interpretato in una scena naif che sa tanto di presepe da un Lello Arena in stato di grazia. Possono essere le note del musical americano, come Serial killer per signora di Douglas J. Cohen nell’allestimento di Gianluca Guidi sempre per Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro, cantato e recitato magistralmente da Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia (per non dire della coppia Teresa Federico e Alice Mistroni), che si muovono a ritmo in una scena ipertecnologica di Annamaria Morelli ricca di carrelli telecomandati e videocomputergrafica. Può essere, infine, la serena campagna toscana anni ‘30 di Firenze-Coverciano, che rivive nella scena realistica di Roberto Crea, dove sono ospitate le pagine delle Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi, rivisitate da Ugo Chiti, nell’allestimento di Geppy Gleijeses per la Gitiesse Artisti Riuniti, che registra la recitazione memorabile di due grandi signore della scena quali sono Lucia Poli e Milena Vukotic. Tutto è stile, tutto è classe, tutto è successo a Verezzi50. Per favore dateci la quarta replica o sarete costretti a scontentare molti spettatori esclusi per il continuo sold out. La tirannia dello spazio mi costringe a scegliere di soffermarmi solo sulla tragica storia delle due ricamatrici cinquantenni; la dominatrice Teresa (Lucia Poli) e la sottomessa Carolina (Milena Vukotic) che, grazie al culto ossessivo del loro lavoro ed alla saggia amministrazione di Giselda (Marilù Prati), hanno acquisito una posizione di prestigio presso la buona società fiorentina. L’equilibrio familiare faticosamente raggiunto, anche grazie alla fidata domestica Niobe (Sandra Garuglieri), viene sconvolto dall’arrivo del nipote Remo (Gabriele Anagni), bello, spiritoso, pieno di vita, seduttivo e profittatore. Costui, oggetto di venerazione e di inconsapevole desiderio delle donne, approfitta della situazione per soddisfare ogni suo capriccio, portandole in breve sul lastrico. Solo un matrimonio con la ricca americana Peggy (Roberta Lucca) salverà Remo dalla catastrofe esistenziale ed economica, ma delle sorelle, cosa ne sarà? Raramente ci è dato vedere uno spettacolo dove l’intensità recitativa vibra ad ogni parola senza mai dover essere urlata da sottolineature bislacche; mai una scivolata nella gag fine a se stessa o nella maniera. Che lezione di teatro. Eppure, tra sussurri introspettivi, la tragedia affiora, eccome, nella dolce luce avvelenata del tramonto della campagna toscana. Chapeau.

MISERABILI
Paolini

Era raffreddato il Suonatore Jones l’altra sera, quando al Teatro Chiabrera di Savona ci ha raccontato e cantato la ballata tragicomica di quattro generazioni di uomini-donne-famiglie che dallo ieri della Belle Époque all’oggi dell’edonismo reaganiano si sono trasformate da “miserabili di fuori” (perché povere) in “miserabili di dentro” (perché vuote).
Si intitolava “Miserabili. Io e Margaret Thatcher” su testi di Andrea Bajani, Lorenzo Monguzzi, Marco Paolini, Michela Signori, con le musiche dei Mercanti di Liquore (Lorenzo Monguzzi, Piero Mucilli, Simone Spreafico), la consulenza storica di Giovanni De Martis. Lo spettacolo è prodotto da Michela Signori, per Jolefilm, con la collaborazione dell’Associazione Teatrale Koreja, dell’Associazione Culturale Artesella, del Teatro Villa dei Leoni di Mira, del Teatro Goldoni di Bagnacavallo, di Vincenzo Linarello e delle comunità e cooperative del Consorzio Goel della Locride, di Davide Canali, di Lorenza Poletto, di Glenda Sampietro.
Il Suonatore Jones si chiama al secolo Marco Paolini, attore, autore e regista cinquantenne bellunese, praticamente un genio visionario, ma nessuna sregolatezza. Tanto buonsenso e piedi saldi in terra piuttosto. In un vortice finanziario gli altri vedevano Margaret Thacther, a lui sembrava la fregatura di Nicola, di Angiolino, di ... bidonati dalle banche. Questo è il succo dello spettacolo. Una buona mistura.
C’è tanto negli spettacoli di Marco Paolini, affabulatore popolare nelle forme e raffinato intellettuale nei contenuti, ma con la penna ben piantata per terra, formato alla premiata scuola di Gabriele Vacis da Settimo Torinese. Un pezzo di Fo, qualche goccia di Jannacci, una bella dose di Gaber, Lino Toffolo q.b., per insaporire, un retrogusto di Pier Paolo Pasolini, due gocce di Cerami. Ma se provate a shakerare il tutto non avrete certo l’originale. Perché Paolini-Jones muore e rinasce ogni sera, in una sbornia di teatro. Sempre eguale, sempre diverso. Si immerge nelle sue storie, che, anche quando parlano dei massimi sistemi, come ad esempio quelli finanziari, sono sempre in realtà degli Annales tacitiani. Storie di tutti i giorni, ma che ci fanno capire il senso dei secoli. Come porte di stanze in cui si entra senza bussare, lui le apre e le chiude, come se fossero tante scatole cinesi e, dalle tante fabulae e dai tanti intrecci, che sembrano aggrovigliarsi attorno a lui, come una piovra dalle mille braccia, quando sembra che stia per essere sommerso da esse (è la famosa complessità contemporanea), eccolo emergere con un tocco di genialità. E la con-fusione diventa con-prensione. Il tutto fuso diventa il tutto compreso... almeno per un attimo.
Ma quell’attimo di comprensione è amaro. Suona più o meno così. Oggi che siamo un po’ più ricchi fuori (ma molto più miserabili dentro), una volta persa la ricchezza esteriore (e tutto lo spettacolo ce ne dà molti indizi di come ciò stia accadendo) torneremo ricchi dentro? Non è detto. Perché se nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, c’è comunque l’entropia dell’universo che cresce sempre. Fino a quando? Basta un battito d’ali di una farfalla a Wall Street e la tavola che abbiamo imbandito di inutili vivande, crolla, trasformandoci da disappetenti anoressici che non riescono più a mangiare, a nuovi affamati. La fame, quando era fame, con un buon pasto ce la si toglieva dalla pancia, ma la “fame” di oggi come faremo a togliercela dal cuore? La nostra fame e quella dei nostri figli? Purché non scelgano il nulla.
Paolini si siede alla tavola imbandita di avanzi, che ci mostra in dettaglio, ma senza mai toccare cibo e la porta al collasso, fino a farla letteralmente esplodere (è questo l’acme dello spettacolo).
Applausi, meritatissimi. Lo spettacolo vale tutto il biglietto pagato.
Paolini ha fatto molto (Il racconto del Vajont, Canto per Ustica, Il Sergente, ecc.), Paolini ha fatto tutto. Cosa farà Paolini da grande?
“Se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare”. Forse vorrebbe (e dovrebbe) fermarsi un po’, ma ha ancora tante storie da raccontare e noi le vogliamo sentire. Tuttavia... “sembra di sentirlo ancora chiedere ai ‘Mercanti di Liquore’ tu che lo bevi cosa ti compri di migliore?” La risposta è facile: Giorgio Gaber (e lui lo sa bene). Ma suonala ancora Sam.

Fuori il Teatrobus non c’era, così imparo ad andare alla Rassegna del Teatro Giovani, loro non vanno in bus, vanno a piedi o meglio in motorino.


NAPOLETANGO

Ma è mai esistito il tango napoletano? Ne dubito sinceramente (e con me tutte le enciclopedie dello spettacolo che ho consultato), ma Giancarlo Sepe, ideatore e regista dello spettacolo “Napoletango” (un calembour che gioca su una g di troppo) è disposto a giurare di sì. Gli emigrati napoletani in Sudamerica contribuirono a questa nascita. Ma allora perché non i pugliesi e i toscani che almeno sono stati i progenitori di Astor Piazzolla? Spero di non avere dato il là con questa “rivelazione” a balzane idee di produrre un Maremmatango con butteri trasformati in gauchos.“Il tango è un pensiero triste che si balla” diceva Enrique Santos Discépolo, come dire qualcosa agli antipodi della tarantella napoletana. Ed infatti…Più tangheri che tangueros, in scena. Non narrerò la trama per il semplice fatto che non esiste, solo un susseguirsi di scene senza soluzione di continuità narrativa e temporale. C’è la triste umanità che ruota attorno alla famiglia Incoronato, Concetta, la matriarca (con la fissazione di costituire una compagnia popolare di tango), il figlio, i fratelli e le sorelle, i cugini, genti di razze diverse, che dicono di essere lontani parenti, ma sono biondi e stranieri, gente che non conosce la lingua italiana, non vedenti, ecc. C’è la fame, la necessità di mettere insieme il pranzo con la cena, una doccia con un letto, inevitabilmente condivisi… con nudità ostentate (e sonoramente contestate dalla platea).Cosa c’entrino loro con la passione del tango è un mistero che l’autore si guarda bene dallo svelare nei 70 minuti di spettacolo. Di tango se ne ascolta, tutto sommato, poco e se ne danza ancora meno, aleggia un’aria napoletaneggiante stereotipata, fatta di bellissime canzoni napoletane (naturalmente non tanghi). Ma di che Napoli stiamo parlando? Anni trenta, quaranta, cinquanta… visto che un brano utilizzato per una clip en travesti è Un’estate al mare (un successo di Giuni Russo dell’estate del 1982)? Eppure le premesse c’erano tutte. La produzione prestigiosa del Teatro Eliseo, un casting da capogiro con 2000 (duemila) audizioni, un debutto al Teatro San Carlo di Napoli come evento speciale in occasione del Napoli Teatro Festival Italia (una manifestazione che ha una dotazione di quattro milioni e mezzo di euro), una tournée al London Coliseum ed in Spagna, ecc. ecc. Ed invece a cosa abbiamo assistito? Ad uno spettacolo che della caratura del vero musical ha veramente molto poco, senza né capo né coda, urlato dal primo momento all’ultimo, allestito secondo il più bieco imperativo del facite ammuina. Ed ecco che gli Incoronato, da squallide taverne e sagre che sono il loro humus, traboccano dal palco in platea, con immancabili valige collo spago e materassi e danzano in un impeto di coinvolgimento da sagra paesana con gli spettatori (sic!), fino a quando non viene offerta loro l'opportunità (in effetti assai poco plausibile) di mettere in scena un vero spettacolo in un bellissimo teatro (Broadway parrebbe). Purtroppo è il Chiabrera di Savona.

NON SI PAGA
Fo

Erano principalmente due gli elementi di interesse per assistere alla rappresentazione dello spettacolo “Non si paga! Non si paga!” (attualizzato in “Sotto paga non si paga”) di Dario Fo presente nella sezione Teatro giovani della stagione teatrale del Teatro Chiabrera di Savona. Il primo era quello di capire se, ad oltre trent’anni dal debutto del testo (che è del 1974), la materia trattata e la forma utilizzata fossero ancora validi e coinvolgenti; il secondo era comprendere quanto può fare a meno del Fo attore il teatro del Fo autore. Cosa dire per rispondere alla prima domanda? Ci sono due realtà di scrittura che si fronteggiano in Fo e, talvolta, si fondono in maniera convincente. Da un lato c’è il geniale meccanismo comico, sempre attuale perchè fuori dal tempo e che risponde alla esigenza profonda dell’uomo di ridere. Qui Fo è ottimo maestro e riesce a porre la tematica trattata (nel caso, l’aumento dei prezzi) in una maniera iperbolica, paradossale, a tratti surreale che ci porta a ridere in modo irresistibile di niente (vedi la scena in cui il protagonista gusta il miglio per canarini e il cibo per cani come se fossero leccornie), graffia e lascia il segno. Dall’altro c’è l’insopportabile lezione, datatissima, del Fo cattivo maestro, in cui il pistolotto politico-rivoluzionario procede implacabilmente, secondo i canoni retorici un po’ bolsi della pièce di formazione della coscienza rivoluzionaria di classe, per cui il padrone è sempre astuto e cattivo, il riformista è sempre un povero illuso... ma state attenti perchè sta prendendo coscienza ed allora... La realtà è un tantino più complicata. Ma Fo pare non accorgersene ed offende l’intelligenza del suo pubblico riducendolo ad un militante trinariciuto che tutto si beve. Fortunatamente c’è, nel teatro di Fo, un elemento significativo di sutura tra il livello alto farsesco e quello infimo politico, che se non giustifica la rivoluzione prossima ventura provocata dalla lotta di classe dura e senza paura, rende almeno plausibile un certo sommovimento sociale in atto. Quasi sempre il protagonista delle sue storie è un irregolare, un fuori di testa, che, proprio perchè è tale, difficilmente può essere inquadrato negli schemi sociali consueti. Questa sua diversità mette il sistema in contraddizione e lo porta ad un potenziale collasso. Il matto è al di là del bene e del male, al di sopra delle regole. Per lui non c’è regola sociale impositiva o repressiva che valga definitivamente a recuperarlo è un antagonista perenne perchè, strutturalmente, non segue regole. E’ la forma attualizzata del foul, del buffone di corte, dello zanni, del giullare e lo sberleffo sono caratteristiche di un certo modo di porgere la materia. La satira (Goldoni e Molière ce lo insegnano) è un’implacabile arma, la risata è temuta dai potenti. Fo, maestro di satira, per questo talento ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura. Fermo restando che sono lieto per il Nobel di Fo e che tutta l’Italia non può che essere orgogliosa per il suo premio, resta da chiedersi quale sia stato il meccanismo decisionale che ha portato la severa giuria svedese a tale scelta. Inutile dire che ci auguriamo che non si sia trattato del premio al Dario Fo politico, che per noi è veramente poca cosa. E gli interpreti? Senza infamia e senza lodo. Certo che l’assenza del Fo in scena pesa parecchio. Marina Massironi e Antonio Catania, sono comici che hanno ottenuto la fama dalla tv e dal cinema, con commediole leggere e gradevoli. Come se la cavano con il teatro comico-politico? Fanno il primo, strappano qualche risata, sopportano il secondo, ma non nascondono una spazientita insofferenza. Assecondano con diligenza i protagonisti Marina De Juli, Renato Marchetti e Sergio Valastro. La spartana produzione era di Produzione Cherestanì. Le bruttissime scene, le inesistenti luci, le modeste canzoni e la superficiale regia erano, spiace dirlo, firmate da Dario Fo stesso che, peccando della presunzione di voler controllare tutto, avrebbe forse impiegato meglio il suo tempo a potare il testo dalle tirate retoriche e lasciar reinventare la farsa da un altro regista. Ciò detto: viva la satira ed il teatro comico (perciò di vera denuncia) di Dario Fo. Uscendo da teatro un dubbio però rimane. Ma veramente la satira contribuisce a demolire il sistema? Quanto invece la satira giova piuttosto a chi la subisce e ne consolida il suo potere? La televisione ci ha mitridatizzato alla satira spietata ed alla denuncia, si pensi a Striscia la Notizia, a Mai dire goal, a Le Jene, a Zelig, ecc. al confronto il teatro di Fo è prosa da educande. Non vi sarà sfuggito che sono tutti programmi in cui i giullari sono stati profumatissimamente pagati con i soldi di Berlusconi. Ma non era lui il padrone astuto e cattivo contro cui si doveva prendere coscienza e lottare? Ancora una volta la realtà è un tantino più complicata.

PROCESSO A CAVOUR

Piccolo è bello. Mi sembra un motto che ben si addice alla scelta fatta dalla direzione del Teatro Chiabrera di Savona e dalla Promo Music di Bologna che, rispettivamente, hanno ospitato e prodotto lo spettacolo Processo a Cavour.
Consiglio non solo di assistere alla rappresentazione ma anche una più meditata lettura del testo (collana Paperback, Corvino Meda Editore). Scritto da Corrado Augias e Giorgio Ruffolo, interpretato da Gherardo Colombo (Il pubblico ministero), Ruggero Cara (Camillo Benso Conte di Cavour, che ne cura anche la regia) e Martina Galletta (Italia) con le scene ed i costumi di Rosanna Monti e le luci di Angelo Generali, il testo, ricalca il recital e si articola in un processo nel quale il “conte sottile” dell’unità d’Italia è messo alla sbarra per aver contribuito, o almeno non impedito, il processo di unificazione di un paese che non possedeva ancora i requisiti politici, etnici e culturali per affrontare responsabilmente una tale profonda modificazione.
I motivi di interesse sono numerosi. Mentre per Corrado Augias, autore di vaglia, si tratta di una bella riconferma, per quanto concerne la recitazione c’è un esordio eccellente, quello di Gherardo Colombo, e qui la realtà e la finzione curiosamente si incontrano. Il primo infatti, già corrispondente del settimanale L' Espresso e del quotidiano La Repubblica, è attivo da cinquant’anni nel settore teatrale con testi di ambientazione storica, ed ha vasta esperienza nei media, essendo stato conduttore di riusciti programmi televisivi su Raitre (Telefono giallo, Babele, Enigma) e curando attualmente il programma quotidiano Le storie – diario italiano. Diversa la storia del secondo. Infatti, già magistrato di inchieste che hanno fatto epoca (Loggia P2Delitto AmbrosoliMani pulite, Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme), oggi, ritiratosi dal servizio, è attivissimo nell'educazione alla legalità nelle scuole (Premio Nazionale Cultura della Pace 2008). Oggi, prosegue il suo ruolo debuttando sulla scena.
Nell’elencare le “colpe” di Cavour, affiorano molte questioni irrisolte. Verità, mezze verità o fandonie? Scrisse a Rattazzi che “L'unità d'Italia è una corbelleria: ma ogni tanto la storia fa delle corbellerie”? Pensa che Le cinque giornate di Milano, furono un “diavolezzo” come proclamò Cattaneo? Veramente il maresciallo Radetzky presentò le armi agli insorti per rendere onore ai loro atti di eroismo dopo la riconquista di Venezia? La spedizione dei Mille di Garibaldi, cosa fu se non un atto d’aggressione nei confronti di un Regno legittimo in clamorosa violazione al diritto delle genti? Aver sottratto Roma al Papa non fu un gesto sconsiderato dal punto di vista religioso, civile e politico?
Cavour si difende da par suo (d’altronde il Risorgimento fu praticamente un suo soliloquio), ma sarà l’Italia, rivestita dal tricolore come nei varietà di una volta, che pretendendo di dire la propria versione dei fatti, farà pendere dalla sua l’ago della bilancia. Porterà come prove foto, documenti filmati, canzoni, opere liriche, versi, ecc.
Uno spettacolo intrigante, al ritmo incalzante della requisitoria; che, in definitiva, si conclude con la sospensione di giudizio, attento più a sollevare interrogativi e stimolare riflessioni che a dare risposte. Se ve lo siete perso andate a cercare in quale luogo si  fanno le repliche, sarà questa l’occasione per fare, anche voi, un pezzo d’Italia, geograficamente e culturalmente.
Questo buio feroce
Delbono
Pioveva forte la sera in cui ho assistito alla rappresentazione di Questo buio feroce, pretestuosamente ispirato dal fortunoso ritrovamento in un’improbabile libreria della Birmania del testo “This wild darkness. The story of my death”, narrazione autobiografica della fine per Aids del poeta americano Harold Brodkey, (ma, per chi ne fosse interessato, assai più facilmente ritrovabile su Amazon, Paperback - Oct 1997 - Bargain Price from $6.80). L’allestimento, che del romanzo prende solo lo spunto, per effettuare in realtà una riflessione sulla propria esperienza di vita, è ideato e diretto da Pippo Delbono.
Entrare nella hall confortevole e calda del foyer del Teatro Chiabrera di Savona è già un attimo di sollievo. Non solo per me. Il pubblico che si accalca al bar ed assisterà tra poco al “provocatorio” spettacolo è praticamente lo stesso di sempre, quello, per capirci, della grandiosa prima di “Misura per Misura” di Shakespeare/Lavia. Evidentemente il supermarket imperante della cultura ci ha abituato non più a scegliere, ma ad essere scelti, in questo caso dall’offerta di un pacchetto abilmente confezionato nel formato mix. Penso che, forse, non dovrebbe essere un raffinato teatro d’opera ottocentesco ad ospitare uno spettacolo di questo genere, ma un luogo “altro”, che conferirebbe ben diversa dignità a tutta l’operazione, ma evidentemente siamo rimasti in pochi a credere alla coincidenza tra il medium e il messaggio, tra la forma e il contenuto o il contenitore se si vuole. Penso che questa “avanguardia contro (ma contro chi?)”, astutamente sdoganata dal ghetto dell’impegno, dalle istituzioni del potere culturale (che è sempre più realista del re pur di poter restare al potere), è ormai assurta ai massimi teatri europei ed ai suoi cachet naturalmente, ed è, evidentemente, felice di ciò, se vanta nella proprio palmares premi, una volta disprezzati, perchè tipici del teatro conservatore e reazionario ultratradizionale.
Penso. Ma una volta Paul Sartre non rifiutò un Nobel e Woody Allen non “si dimenticò” di ritirare un Oscar perchè occupato a suonare il clarinetto in un pub di New York? Evidentemente molto tempo e molte illusioni sono passati se anche Dario Fo è corso felice a ritirare il Nobel e Roberto Benigni non da meno ha fatto con l’Oscar.
Mi devo, evidentemente, dare una regolata d’aggiornamento, infatti è noto che Questo buio feroce, ha debuttato al Teatro Argentina di Roma nell’ottobre 2006 alla presenza del Presidente della Camera Fausto Bertinotti, ed è una prestigiosa coproduzione internazionale di Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Festival delle Colline Torinesi, Théatre de la Place Liegi, Théatre du Rond Point Parigi, Théatre National de Toulouse Midi-Pyrénées, Maison de la Culture d'Amiens, Le Merlan Scène Nationale de Marseille, le Fanal Scène Nationale de Saint Nazaire.
Si entra in sala con ancora una perplessità. L’operazione, in cui è specializzata la compagnia, e che gli ha dato la celebrità in Francia, cioè quella di sbattere il mostro in palcoscenico, di far esibire il diverso, l’handicappato, il folle, il disturbato mentale, il corpo martoriato dell’anoressico è un gesto di sdoganamento dell’emarginato, è uno choc salutare per la nostra indifferenza, per una società che ci ha mitridatizzato a tutto, oppure è un’operazione di sciacallaggio, un’operazione di marketing pseudo culturale per menti assopite che vogliono qualcosa di sempre più shockante per restare deste o, peggio, per provare un brivido che ricorda tanto i cruenti spettacoli splatter degli antichi Romani?
Uno sguardo ancora al foyer dove noto l’unica vera differenza rispetto al passato, un banchetto di sostenitori ginostradiani di Emergency che non si era visto l’altra volta (chissà perchè? Forse perchè questa sera si parla di AIDS? L’altra volta si parlava di piaghe sociali altrettanto gravi, eppure...).
Il sipario (sic!) si apre, è lo spettacolo ha inizio. Siamo in un ospedale della fantasia, dove il bianco è la dimensione del dolore. E di bianco è vestito il protagonista, come un dandy kirkegardiano che narra il tre passi nel delirio verso la sua morte. Ma non si tratta né di operazione biografica né autobiografica, si tratta piuttosto di idea “altra” di finzione, come presunta assenza di finzione, la contaminazione dello spettacolo con la vita, con la propria vita, come afferma Delbono citando Artaud. Insomma, sulla scena la distinzione tra persona e dramatis persona parrebbe non esistere più. Finzione e realtà, dovrebbero diventare finzione è realtà. Un passo avanti o uno indietro? Innovazione o regressione? E cosa vuol dire innovare? Creare qualcosa di nuovo che duri nel tempo. Se è così non dobbiamo scordarci che Antonin Artaud, il teorico del teatro della crudeltà, prima di essere definitivamente internato in un manicomio, era riuscito a produrre solo una magrissima pièce, “I Cenci”, per altro di impostazione tradizionalissima. Chissà Delbono?
Quello che si vedrà in scena, conferma i timori della vigilia. Si tratta di uno spettacolo linguisticamente tradizionalissimo, “facile”, accattivante al di là di ogni voluta sgradevolezza e crudezza. La genialità delle vite disperate/ è quello che io ti darò, dice in una sua grande canzone Paolo Conte e un gelato al limon... un gelato al limon. Questo appunto ci ha dato Pippo Delbono quella sera: un gelato al limon. Un prodotto viziato di calligrafismo visivo, stracci del terzo teatro, che volano via, il funerale del teatro povero, scelte di un teatro ricco, ma ricco di difetti, di astuzie e deja vu, (si va dal Tanztheater di Pina Baush, all’Odin Teatret di Eugenio Barba, dal Teatro Laboratorio di Jerzy Grotowski, al Cricot 2 di Tadzeus Kantor, giù giù sino a Maurice Bejart). Si tratta di uno spettacolo drammaturgicamente esilissimo, fatto dell’assemblaggio di spezzoni, in cui trovano posto le suggestioni onirico visive e le esercitazioni del training dei componenti della compagnia. Un collage in cui si susseguono senza soluzione di continuità scene che non spingono mai veramente alla riflessione, ma sempre alla suggestione ed all’emozione consolatoria, ora grazie a “gradevolissimi” quadri visivi, pensati come videoclip al ralenty (e l’esibizione da freaks alla Circo Barnum fa parte del gioco splatter), ora grazie ad un’ipnotica colonna sonora (volutamente classicissima e passatista). Nel frullatore del vissuto c’è posto per tutto: per la poesia di Emily Dickinson, per Caravaggio, per Botero, per Frank Sinatra, per Cenerentola e naturalmente per una denuncia nologo del consumismo. Ma non c’è niente da capire direbbe Francesco De Gregori. Solo lasciarsi emozionare. 
Tecnicamente, come attore, Pippo Delbono è un paradosso. Sembra indaffaratissimo ma recita al risparmio, in maniera monocorde, con voce lenta, usando solo il microfono, sempre e solo sui fiati, si muove goffamente, esibisce il suo corpo ingrassato di cinquantenne, in un balletto goffo e patetico, prima vestito, poi, dopo essersi spogliato, lo ripete in mutande. Lo spettacolo è terminato. C’è chi applaude e chi no. Come al solito il pubblico si divide tra chi vi ha visto meraviglie e chi poco o nulla.
Che dire? Per me la delusione è profonda. Non ultima quella che, Pippo Delbono, l’ho avuto tanti anni fa come allievo attore e, proprio io, ho la responsabilità di avergli fatto conoscere, in un seminario sul terzo teatro da me organizzato a Savona Pepe Robledo, che allora ruotava attorno al danese Odin Teatret di Holstebro. Da allora hanno fatto coppia fissa, dando vita, negli anni alla compagnia che questa sera si è esibita qui. Sono davvero tanti quelli che in scena (e dietro le quinte) lo hanno assecondato con grande diligenza mimica e qualche esagerazioni vocale (visto che sfugge il senso di ciò che dicono): Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Raffaella Banchelli, Bobò, Margherita Clemente, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Gustavo Giacosa, Simone Gaggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo. Le scene spoglie sono di Claude Santerre. Il disegno delle sobrissime luci è di Robert John Resteghini. Il direttore tecnico è Sergio Taddei. Il fonico è Angelo Colonna. La sarta è Giada Fornaciari. L’organizzazione è di Christian Leblanc e Letizia Sacchi. L’ufficio stampa è di Simona Carlucci ed Agnese Doria. Le foto di scena sono di Gianluigi Di Napoli. Scene e costumi sono stati realizzati nei laboratori del Theatre de la Place Liegi.Ma se avessi previsto tutto questo/ dati causa e pretesto/ le attuali conclusioni... direi, come Francesco Guccini, chissà onestamente se lo rifarei.

Sam Capuozzo

La XLIII Edizione del Festival Teatrale di Borgio Verezzi svoltosi nella stupenda piazzetta di Sant’Agostino, è stata dedicata (almeno in parte) a Napoli ed alla sua cultura. Tra la ricca serie di proposte in cartellone, ho assistito alla coproduzione, in prima nazionale assoluta, dell’Ente Teatro Cronaca e del Festival di Borgio Verezzi, dello spettacolo dal titolo “Sam Capuozzo”, una commedia musicale in due tempi scritta per le scene, su un soggetto originale di Marina Confalone, dalla stessa Marina Confalone e da Roberto Azzurro e Luciano Saltarelli.
Si è trattato di una divertentissima farsa gialla napoletana, sostenuta dalle musiche e dalle canzoni originali di Elio e Le Storie Tese, in cui accanto alla mattatrice Marina Confalone (Samantha detta “Sam” Capuozzo), una scombinatissima investigatrice privata, si alternano sulle scene un variegato cast di caratteristi comici costituito da: Sergio Di Paola (Rocco Parisi), Tina Femiano (Margherita Parisi, Carmela), Adriano Pantaleo (Vincenzo Parisi), Antonio Chitivino (Ragazzo del bar), Massimo De Matteo (Paul Pinkerton), Loredana Simioli (Concetta Pinkerton), Sergio Di Paola (Commissario Fatuzzo), Luigi De Falco (Sasà Amitrano), Vincenzo De Falco (Fofò Amitrano), Yacoubou Ibrahim (John), Giuseppe Gavazzi (Peppino Stazzullo), Ivana Maione (Patrizia).
La trama, giustamente complicata come si conviene ad un giallo, ci racconta di una strampalata e saccente detective che riceve nel suo ufficio la visita di una ricca signora che, essendo in procinto di partire, la ingaggia per indagare in sua assenza sulla presunta infedeltà del marito. Sam e il suo assistente si recano nell’abitazione della loro cliente,”Villa Fravulella” sotto le mentite spoglie di camerieri assunti dalla padrona di casa, per poter studiare da vicino i comportamenti dell’affascinante marito inglese della signora. Ma per Sam Capuozzo, donna dedita al più sfrenato libertinaggio, questo caso significherà la scoperta del vero amore. A Villa Fravulella nel frattempo cominciano a verificarsi misteriosi omicidi...
Diciamo subito che gli obiettivi che l’allestimento si era proposto, cioè, far ridere in modo intelligente, seguendo una trama avvincente, con dialoghi serrati e plausibili, sono stati pienamente raggiunti. Certo non ci troviamo davanti ad un capolavoro, che resterà negli annali del teatro, ma davanti ad un prodotto di ottimo artigianato, che ci lascia ben sperare per il futuro. A quando il bis? Speriamo presto, ad reinstaurare una circolo virtuoso, a cui il teatro italiano moderno ci aveva purtroppo disabituato, se si tolgono le eccezioni dei Fo e dei De Filippo.
Se sulla scena italiana ci fossero dieci “Samcapuozzo” l’anno, nel giro di un decennio, al massimo, la scena italiana sarebbe rifondata, avrebbe i suoi nuovi capolavori, e sulla scorta di quella anglosassone godrebbe di un’ottima salute, di una consistente audience e dello scambio continuato con gli altri mass media, televisione e cinema ovviamente. Ed invece cosa ci tocca vedere, la ennesima riproposizione dei classici (Shakespeare, Goldoni, ecc.) e la riscrittura scenica di successi cinematografici. Ma forse uno spiraglio si è aperto.

Sorelle d'Italia

E’ andato in scena al Cinema Teatro Comunale di Pietra Ligure nell’ambito della rassegna coordinata dalla provincia di Savona La Riviera dei Teatri, il divertentissimo avanspettacolo fondamentalista Sorelle d’Italia con la drammaturgia originale di Roberto Buffagni, la regia di Cristina Pezzoli, la direzione musicale di Alessandro Nidi, protagoniste Isa Danieli e Veronica Pivetti. Prodotto da Porto Venere Arcipelago Teatro 2010 con il contributo del Comune di Porto Venere e Il Mulino di Amleto, oggi lo spettacolo si avvale della distribuzione della AGIDI, la celebre casa di produzione di tanti successi di Aldo, Giovanni e Giacomo. Si tratta di uno spettacolo pensato e realizzato per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Tre tempi (Secessione – 2061 - Retromarcia) per rispondere alla fatidica domanda: come ci arriveremo, noi fratelli e sorelle d’Italia, al secondo Centenario dell’Unità d’Italia? In scena due pezzi da novanta per simpatia e popolarità: Veronica Pivetti, sorella minore di Irene militante leghista, già Presidente della Camera, volto notissimo televisivo (Quelli che... il calcioFestival di Sanremo, CommesseQualcuno da amare, Il grande attentato, L'amore non basta, Il maresciallo Rocca, Provaci ancora profLa ladra) e del cinema (Viaggi di nozze, Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica, Le giraffe) ed Isa Danieli, attrice teatrale (Eduardo De Filippo, Nino Taranto, Roberto De Simone) e cinematografica (Così parlò BellavistaIo speriamo che me la cavo, Kirie) e televisiva (Capri). La fantastoria d’Italia è un pretesto che permette, in un match travolgente di bravura, a Veronica la Milanese e ad Isa la Napoletana, di boxare con canzoni, musica, balli e brani tratti da Bertolazzi, Viviani, Eduardo, Testori, Bramieri, Taranto, Totò, Fanfulla, i Gufi, Jannacci, Daniele. Ecco scorrere Nostalgia de Milan, 'O sole mio, O mia bèla Madunina, Santa Lucia luntana, U' Ferribotte, Nebbia in Val Padana, Napul’ è, ma non manca neppure l'operina buffa in cui Isa la Tirolese e Veronica l'Ottomana spiegheranno, con recitativi e romanze inedite, che cosa è accaduto nel nostro imprevedibile Belpaese. Assistere allo spettacolo è un salutare salto nel passato (anche se sarebbe più corretto dire, visto l’argomento trattato dal testo, nel futuro) che mette a confronto due diverse tradizioni di spettacolo minimo, la sceneggiata partenopea ed il cabaret meneghino, e due stili di recitazione contrapposti, la ridondanza e l’asciuttezza, la sovrabbondanza e l’essenzialità. Il miracolo è che si ride comunque, per oltre due ore, ed il match Sud-Nord finisce in assoluta parità, per palese superiorità degli interpreti.

UN CERTO SIGNOR G

"Un certo signor G" prodotto dal Teatro dell'Archivolto di Genova, per la regia di Giorgio Gallione con Neri Marcorè, andato in scena a Savona, al Teatro Chiabrera, ripropone, sintetizzandole in un unico spettacolo, le prime esperienze teatrali scritte da Gaber con Sandro Luporini, fra il 1970 e il 1974 (oltre al "Signor G", "Dialogo tra un impiegato e un non so""Far finta di essere sani" e "Anche per oggi non si vola"), passando per "Il Dio Bambino" del 1993 fino all'ultimo disco, uscito postumo nel 2003, di cui Marcorè interpreta "Io non mi sento italiano"Per chi, come me, ha amato Giorgio Gaber sin da bambino, da Trani a gogò alla Ballata del Cerruti Gino, da Benzina e cerini Non arrossire fino a Le strade di notte, che ha seguito tutti gli spettacoli del suo straordinario teatro-canzone, anche quando all’inizio eravamo quattro gatti ad andare ad ascoltarlo, perché “cosa ci fa lì uno così che si è compromesso con il Festival di Sanremo”, e lo ha amato ancora di più, quando, in anticipo sugli eventi, aveva segnalato il buco nero involutivo in cui si era infilata l’intellighenzia di sinistra, ed aveva ricevuto da lei un ostracismo velenoso, andare a vedere "Un certo signor G", è stato un pugno al cuore. Perché? Semplice. Lo spirito artistico, e quindi contenutistico, più vero di Gaber è stato tradito. Vedere un “campione della cultura popolare”, quale lui è sempre stato, venire messo in scena con un aplomb plumbeo concertistico di operazione culturale di marca cabarettistico-mitteleuropea, fa cadere le braccia. Ci torna in mente la sua dolce ballata sugli intellettuali che si sporcavano la barba castrista-guevariana di gelato mentre, al Bar Casablanca, esibiscono i titoli rossi dei loro giornali e parlano di una rivoluzione e di un proletariato di cui, naturalmente, ignorano tutto. Fa male sentire la cantabilità di Gaber affogata nel martellante percussionismo intellettualistico-ossessivo di due pianiste (Silvia Cucchi e Vicky Schaetzinger, su elaborazione musicale di Paolo Silvestri), che soffocano l’esile voce, non sempre intonatissima, di Marcoré. Fa capire quanto sia datata l’operazione, che in realtà vuole passare, purtroppo, per una scelta colta ed impegnata. Una volta si sarebbe detto “fuori dalle logiche consumistiche”, quindi di sinistra. Fuori luogo poi alcune “attualizzazioni” con battute del calibro “Disoccupazione giovanile in aumento. Il premier ribatte: cribbio, ma non invecchiano mai?”, oppure “La Lega al congresso davanti a un bivio. Padania o Parmigiania Reggiania?”, che non riescono a strappare una increspatura di sorriso neppure al più ottuso veterorosso trinaricuto, e quel clima claustrofobico delle scene di Guido Fiorato, fatte di decine di fogli di giornale che ricoprono il palco e di cui sono foderate porte e finestre della casa ideale del signor G, che, sai il colpo di teatro, saranno strapppati un poco per volta nel corso dello spettacolo, fino a permettere ad un grosso topo di penetrarvi dentro (chissà chi era e cosa significava, forse “Il grigio” mormorava qualche ben informato in sala). Scusate tanto ma Gaber, volava molto più in alto e si faceva capire da tutti, colti ed ignoranti, questa la sua grandezza. “Scusate tanto se parlo di Maria”, diceva Gaber, mettendo alla berlina chi gli rinfacciava il “cedimento” ad una pura canzone d’amore rispetto alla necessità della battaglia ideologica per il monopolio delle coscienze, quelle parole ci dicono tutto… ma forse Gallione non le ha veramente capite e Marcorè gli è andato dietro… per cento lunghi minuti.

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