La trama è assai accattivante. Don Silvestro (Gianluca Guidi), parroco di un immaginario paese di montagna, riceve una telefonata del Padreterno in persona (la voce registrata di Renato Turi), che gli comunica l'intenzione di mandare sulla terra il secondo diluvio universale. Come un novello Noè, riceve l'incarico di costruire un'arca di legno, per mettere in salvo tutti gli abitanti e gli animali del paese. Ma portare a termine il suo compito con l'aiuto degli scettici compaesani non sarà impresa facile. Di Don Silvestro è perdutamente innamorata Clementina (Valentina Cenni), figlia del sindaco del paese, Crispino (Enzo Garinei) ostile al parroco. A complicare il tutto si segnala l’arrivo in paese di Consolazione (Marisa Laurito), una donna di facili costumi che rischia di distrarre dai doveri coniugali gli uomini del paese, proprio nella notte prima del diluvio, destinata dal Signore alla procreazione. Un miracolo però ristabilisce l'ordine, e sarà l'impotente Toto (Marco Simeoli) che con un rigurgito di virilità terrà impegnata Consolazione. Don Silvestro, infine, convincerà Dio a scongiurare il diluvio, e nel gran finale, attorno ad una tavola imbandita per la festa, scenderà una colomba bianca. È per Lui che si aggiunge il famoso posto a tavola.
Quella a cui assistiamo è la quinta edizione dello spettacolo, a ribadire l’incredibile successo della pièce, andata in scena il 2 dicembre 2009, in occasione del sessantennale del teatro Sistina di Roma e, visto il grande successo, resterà in cartellone sino all’aprile 2011. La regia è quella originale di Pietro Garinei e Sandro Giovannini ma con la ripresa teatrale di Gino Landi e la supervisione di Johnny Dorelli (che fu protagonista delle prime tre edizioni). Ma si tratta di un ideale passaggio di testimone infatti l’attuale protagonista, Gianluca Guidi, è figlio di Lauretta Masiero e di Giorgio Guidi (vero nome di Johnny Dorelli). Si tratta di tre ore di godimento puro, in quella che, da molti anni, risulta essere una delle migliori stagioni teatrali savonesi. Un bagno di ricordi e di emozioni sempre attuali, in cui convivono il come eravamo e l’oggi. Una visione semplice (ma non per questo riduttivamente ingenua e meno coinvolgente) della divinità amica, che oggi, in un’epoca di crescente relativismo, andrebbe cantata a gran voce, anche con la bellezza delle sue canzoni, in coro con questi ottimi interpreti.
BANDA 4.0
L’anteprima del Festival Teatrale di Borgio Verezzi, giunto quest’anno alla sua 53^ edizione, ci riserva sempre delle deliziose serate teatralmusicali. Quest’anno è la volta de La Banda Osiris, nome che è un omaggio a Wanda Osiris. In una piazza sant’Agostino che registra un sold out strepitoso, si esibisce nel suo spettacolo antologico intitolato “Banda 4.0”. L’allusione ad Industry 4.0 (la quarta rivoluzione industriale) è chiaro, ma qui va letto senza punto e fa 40, tanti quanti sono gli anni di questo gruppo di clown musicali italiano fondato a Vercelli nel 1980 dai fratelli Gianluigi e Roberto Carlone, da Giancarlo Macrì e Mario Sgotto a cui è subentrato Sandro Berti. Gianluigi Carlone canta, suona il flauto ed il sax soprano. Roberto Carlone suona il basso, la tastiera ed il trombone. Giancarlo Macrì suona le percussioni ed il basso tuba. Sandro Berti suona la chitarra, il mandolino ed il trombone. Il gruppo è diventato famoso, per la partecipazione ai programmi di Rai 3 “Parla con me”, di Rai 1 “Pista!”, per le sigle dei programmi di Rai Radio 2 Caterpillar e Catersport, per “Una finestra sul mondo della musica”, per “Banda Osiris gran turismo”, per “Musica coi fiocchi” e per l’ironico “Concerto di Capodanno 2005” con l’Orchestra del Conservatorio di Genova. La Banda ha inoltre scritto ed eseguito colonne sonore per il teatro, per documentari e per il cinema tra cui “Anche libero va bene” di Kim Rossi Stuart, “L’imbalsamatore” e “Primo amore” di Matteo Garrone per cui ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino e il David di Donatello nel 2004. Ma indubbiamente il meglio la Banda lo dà nei suoi spettacoli teatrali, dove l’interazione col pubblico scandisce i ritmi della sua comicità colta e popolare al tempo stesso. I quattro forniscono un’ironica rilettura di spettacoli teatrali, sigle radiofoniche e televisive, colonne sonore, libri, insomma quelle che sono state le tappe più significative dell’iter creativo del gruppo. Un viaggio attraverso brani musicali che intersecano stili e generi (pop, classica, jazz, rock, world, new age, ecc), assemblati tra loro da libere associazioni, poesia visiva ed ermetica, racconti, melodie strappalacrime, aneddoti, poesie, umorismo surreale e continue sorprese che sono elementi essenziali della cifra stilistica che caratterizza il loro lavoro. Tra musica seria e musica comica, citazioni colte e trash d’annata, canzoni d’autore e jingle pubblicitari, la Banda Osiris dà vita ad un concerto, un recital, uno spettacolo. Applausi e bis. Strarciultrameritatissimi.
L’anteprima del Festival Teatrale di Borgio Verezzi, giunto quest’anno alla sua 53^ edizione, ci riserva sempre delle deliziose serate teatralmusicali. Quest’anno è la volta de La Banda Osiris, nome che è un omaggio a Wanda Osiris. In una piazza sant’Agostino che registra un sold out strepitoso, si esibisce nel suo spettacolo antologico intitolato “Banda 4.0”. L’allusione ad Industry 4.0 (la quarta rivoluzione industriale) è chiaro, ma qui va letto senza punto e fa 40, tanti quanti sono gli anni di questo gruppo di clown musicali italiano fondato a Vercelli nel 1980 dai fratelli Gianluigi e Roberto Carlone, da Giancarlo Macrì e Mario Sgotto a cui è subentrato Sandro Berti. Gianluigi Carlone canta, suona il flauto ed il sax soprano. Roberto Carlone suona il basso, la tastiera ed il trombone. Giancarlo Macrì suona le percussioni ed il basso tuba. Sandro Berti suona la chitarra, il mandolino ed il trombone. Il gruppo è diventato famoso, per la partecipazione ai programmi di Rai 3 “Parla con me”, di Rai 1 “Pista!”, per le sigle dei programmi di Rai Radio 2 Caterpillar e Catersport, per “Una finestra sul mondo della musica”, per “Banda Osiris gran turismo”, per “Musica coi fiocchi” e per l’ironico “Concerto di Capodanno 2005” con l’Orchestra del Conservatorio di Genova. La Banda ha inoltre scritto ed eseguito colonne sonore per il teatro, per documentari e per il cinema tra cui “Anche libero va bene” di Kim Rossi Stuart, “L’imbalsamatore” e “Primo amore” di Matteo Garrone per cui ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino e il David di Donatello nel 2004. Ma indubbiamente il meglio la Banda lo dà nei suoi spettacoli teatrali, dove l’interazione col pubblico scandisce i ritmi della sua comicità colta e popolare al tempo stesso. I quattro forniscono un’ironica rilettura di spettacoli teatrali, sigle radiofoniche e televisive, colonne sonore, libri, insomma quelle che sono state le tappe più significative dell’iter creativo del gruppo. Un viaggio attraverso brani musicali che intersecano stili e generi (pop, classica, jazz, rock, world, new age, ecc), assemblati tra loro da libere associazioni, poesia visiva ed ermetica, racconti, melodie strappalacrime, aneddoti, poesie, umorismo surreale e continue sorprese che sono elementi essenziali della cifra stilistica che caratterizza il loro lavoro. Tra musica seria e musica comica, citazioni colte e trash d’annata, canzoni d’autore e jingle pubblicitari, la Banda Osiris dà vita ad un concerto, un recital, uno spettacolo. Applausi e bis. Strarciultrameritatissimi.
Brachetti ciak si gira!
Citiamo a titolo esemplificativo: Maciste, Quasimodo, Nosferatu, Zorro, Mary Poppins, Crudelia De Mon, Baby Jane, Lon Chaney, Fu-Manchu, Charlie Chaplin e Judy Garland, Carmen Miranda e Gene Kelly, Humprey Bogart e Ingrid Bergman, Liza Minnelli, King Kong, Darth Vader, Gollum, Harry Potter, ecc.
Poi ci sono naturalmente i pezzi di bravura del suo repertorio classico: l’omaggio a Fellini, il cappello del nonno che può servire a creare mille personaggi e quel pezzo di antologia di “si fa trasformismo con quasi niente”, una vera e propria sfida all’intelligenza visionaria di tutti i trasformisti.
Ci viene da sorridere pensando che questa performance a cui hanno assistito 1200 occhi esterefatti, venga definita da Arturo un allestimento leggero (“solo” due tir di scene e costumi), per permettere la tournée anche in piccoli teatri. Una mano santa per noi poveri provinciali, costretti solitamente a cercarlo nei grandi palcoscenici delle metropoli. Non è che, ultimamente, manchino a Brachetti (una delle star internazionali italiane più note in tutto il mondo) le piazze importanti, ma quest’anno a Natale aveva promesso di essere nel piccolo ma celeberrimo palcoscenico delle Folies Bergère di Parigi, dove la sua stravagante pettinatura fumettistica a punteruolo è di casa. Noblesse oblige.
Per un personaggio mitico come lui, la biografia sconfina ormai nella leggenda (che da sapiente amministratore di se stesso contribuisce, se non proprio ad alimentare, a non smentire): come quella di aver imparato i giochi di prestigio da bambino in un seminario torinese da un prete illusionista, o di aver debuttato con successo a soli 15 anni ed essere già una vedette a 20 anni al Paradis Latin di Parigi. Ma è leggenda o verità? Di certo ci sono, naturalmente, i premi prestigiosi vinti, come il Molière, o il riconoscimento del Guinness Book of Records che lo annovera come il più veloce trasformista del mondo.In Italia, molti l’hanno imparato a conoscere come il regista de I corti, Tel chi ‘l telun, e Anplagghed di Aldo Giovanni e Giacomo. Che spettacolo doveva essere assistere a quelle prove!
E PENSARE CHE C'ERA IL PENSIERO
L’attrice e cantante, strelheriana, che ha al suo attivo un cospicuo ed impegnativo repertorio canoro (Schönberg Kabarett di Peter Stein, Pierrot lunaire di Le Moli, Canzoni italiane e Canzonette vagabonde degli anni '20, '30 e '40), affronta la prova con sicurezza e temperamento.
Gaber, riletto al femminile, non perde niente. La forza delle sue parole è capace di stare nel presente e di anticipare il futuro, e l’onestà di questa ricerca fa sì che, tutti gli inevitabili anacronismi delle mille battaglie perse, si sciolgano davanti al desiderio di riascoltarlo.
Non tutto è oro colato, il tempo si sente, e forse una sforbiciata sarebbe servita. Ma non sono solo canzonette. Soprattutto a vincere è la forza di chi, come si rigira la frittata, non è mai stato ascrivibile né alla destra né alla sinistra. Gaber, per fortuna è di Gaber, quindi un valore per tutti noi. E per questo suo coraggio ha molto pagato di persona, sorte che tocca a tutti coloro che, in nome di un ideale superiore, non si assoggettano alla semplificazione ideologica di una scelta di campo. Nell’Italia che sogna di essere bipolare senza riuscirci, queste persone sono la pietra d’inciampo del luogocomunismo, un fastidio per chi non vuole leggere le contraddizioni sempre più evidenti ed ammettere una sconfitta collettiva dell’umano. Viva Gaber e la “sua” Maddalena.
GOMORRA
Anche se ogni spettacolo ha una propria dimensione, che non va confrontata con quella di altri, in queste mie riflessioni faccio un’eccezione e proverò a recensire in maniera comparata due diversi spettacoli accomunati da un’eguale tematica: l’analisi del fenomeno camorristico. Si tratta della pièce di Eduardo De Filippo “Il sindaco del rione Sanità” e di quella ricavata dal bestseller di Roberto Saviano “Gomorra”, andate in scena, a pochi giorni una dall’altra, in un piovosissimo dicembre, nell’ambito della stagione artistica del Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona.Cominciamo dalla prima pièce. Una volta, per evitare che il patrimonio si disperdesse fra un numero di eredi eccessivo e di fatto risultasse così esiguo per ciascuno, da compromettere l’integrità del potere di un casato, si usavano pratiche certo discutibili: figli cadetti avviati alla carriera militare, figlie femmine in convento. Non sono certo nostalgico di quelle barbare pratiche, ma non posso evitare di constatare a quali danni stia portando, oggi, la scelta opposta, almeno per le opere teatrali di Eduardo: una volta esclusivo appannaggio suo, poi patrimonio solo del legittimo erede di sangue e d’arte, infine, lasciate libere per molti interpreti. Come una eredità democraticamente mal gestita, essa si sta frantumando in un ruscellamento artistico che, né singolarmente né nella sommatoria, ricorda più la forza del compatto fiume fluente di acqua, di idee, di poesia e di umanità che era il teatro di Eduardo. Lo spettacolo a cui ho assistito, infatti, non è che un pallido ricordo di una pièce che, quando 50 anni fa comparve sulle scene, in una Napoli non certo migliore di quella di oggi, suscitò certo sensazione, ma non l’avido compiacimento nazionale ed internazionale di rivoltarsi nella sporcizia dei temi di cui trattava. Prodotto dalla Diana, con protagonista e regista Carlo Giuffré e comprimari Piero Pepe, Aldo De Martino e Alfonso Liguori, l’allestimento, con scene, luci e costumi naturalisticamente convenzionali, risulta registicamente privo di idee (salvo quella, sciagurata, di una aggiunta finale, in cui due killer vestiti da Blues Brothers fanno fuori il coprotagonista). Di una lunghezza smisurata (tre ore e mezza) e di una lentezza esasperante, con un compiacimento naturalistico dei dettagli, dilatati fino al tempo reale, che stride con l’essenzialità e l’incisività dell’alta arte scenica, quello a cui abbiamo assistito è un tipico spettacolo a mattatore (ma il pur bravo Carlo Giuffré non è certo Eduardo), secondo il peggior vizio di alcuni anziani senatori teatrali italiani. Il ritratto del grande attore teatrale da vecchio è quello di chi, via via, è diventato insofferente del regista, che “lo costringe, lo comprime e lo mette a servizio della scena”, e decide di fare da solo. Il risultato è quello che, costui, dà il peggio di se stesso, poiché è libero di dare sfogo al proprio lato oscuro di istrione, fatto di un immenso egotismo narcisistico, che usa il testo per permettersi infinite passerelle di “bravura”.
E quindi la seconda pièce. Prodotto dal Teatro Mercadante, il testo di Roberto Saviano e di Mario Gelardi, che ne è anche il regista, con Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Ernesto Mahieux, Giuseppe Miale di Mauro e Adriano Pantaleo, fa parte del cosiddetto teatro politico di denuncia. Si tratta di un genere molto datato, purtroppo rimesso in scena oggi secondo le desuete convenzioni del teatro povero degli anni sessanta e settanta, a metà tra la denuncia del comizio di piazza e l’ostentata esibizione della sporcizia del degrado ambientale, molto fisico, anfetaminico, crudo e costantemente urlato. Il testo, purtroppo, non è sostenuto da un linguaggio nitido e rivelatore, ma risulta involuto e farraginoso, indirizzato più verso il monologo che verso il dialogo, un linguaggio oscuro, che non aiuta a capire e ad orientarsi nella complessità della materia trattata. La scarsa padronanza con la tecnica teatrale (Saviano è un giornalista), fa si che mancando il respiro di uno sviluppo organico, il lavoro denunci piuttosto un’operazione di assemblaggio di brani, flash di cinque storie emblematiche di camorra (in sé molto poco credibili, aggiungo io).
Resta solo la tragedia del tempo presente. Che sta tutta fuori delle sale teatrali. I tempi sono cambiati. Se era vera la leggenda metropolitana di un Eduardo omaggiato dal camorrista, a cui la storia si ispirava, che lo veniva a trovare in camerino e con cui consumava “’na tazzulella ‘e café”, oggi la cruda realtà è quella di un Saviano (al quale va tutta la nostra solidarietà) costretto a girare sotto scorta, per le minacce avute dai clan camorristici di cui parla. Deve esserci qualcosa di veramente malsano (e che non comprendo), se bisogna scortare uno scrittore che racconta storie che tutti conoscono (primi tra tutti politici, polizia e magistrati) e non quei tutori della legalità, che questi crimini sono impegnati a perseguire quotidianamente ed a costruire con fatica, giorno per giorno, un mondo di buongoverno minimo e praticabile.
Cosa è cambiato in questi cinquant’anni che distanziano le due pièce? Una volta il pericolo era costituito dal rischio che il successo del grande progetto criminale diventasse una società strutturata, alternativa a quella legale, un antistato nello stato; oggi il pericolo è che la dimensione quantitativa della economia malavitosa eroda concretamente quote crescenti a quella legale, fino ad inglobarla e costringa lo stato a convivere suo malgrado con essa, pur di continuare ad esistere.
Per cui mi trovo nell’ingrato compito di non poter parlare bene di attori ed attrici importanti, che tanto hanno dato alla scena italiana, ma che oggi hanno perso mordente ed incisività. Per un poco si evita di farlo, ma poi, inevitabilmente, bisogna recensire ed allora… il discorso cambia. In questa stagione ciò è già successo con il grandissimo Glauco Mauri e con il rispettabilissimo Moni Ovadia, ma è chiaro che non può durare all’infinito.
Oggi succede con i grandi Pino Micol, Giulio Brogi e Mariella Lo Giudice, protagonisti di questo spettacolo. “Il birraio di Preston”, è l’emblema del teatro italiano “anni dieci”. Un prodotto, né più brutto né più bello di tanti altri che riempiono oggi le stagioni teatrali nostrane, che si avvale di scene curate, quelle di Antonio Fiorentino, di costumi professionalmente corretti, anche se naturalisticamente convenzionali, di Gemma Spina, di musiche funzionali di Massimiliano Pace e di luci meticolose di Franco Buzzanca, e che ha un cast numericamente assai ampio e di tutto rispetto (oltre ai summenzionati Ester Anzalone, Alberto Bonavia, Chiara Cimmino, Cosimo Coltraro, Margherita Mignemi, Mimmo Mignemi, Franco Mirabella, Stefano Nicolosi, Marcello Perracchio, Gian Paolo Poddighe, Gianluca Ridolfo, Giampaolo Romania, Sergio Seminara, Angelo Tosto). Già ma, vedendo questo lungo susseguirsi di siparietti alla siciliana, la domanda scatta spontanea: ma il teatro vero, quando arriva?
Questo “birraio” è proprio lo specchio della mediocrità teatrale italiana di oggi. Proprio come l’opera che cita (fortunatamente sepolta nel dimenticatoio) e che qualcuno si ostina a voler mettere in scena, contro il buonsenso di tutti. E’ lo specchio esatto di una implosione della scena italiana, che non è la scarsità di sbigliettamento dovuta alla crisi economica (gli abbonati del Chiabrera non sono calati, ma qualche volta i vuoti in platea si cominciano a notare), ma una crisi di idee e di creatività. Ci si rifugia in ibridi musicali, riduzioni da romanzi, escamotage vari. Ma la realtà è sotto gli occhi di tutti: il teatro italiano fa acqua da tutte le parti. Non ha più veri autori, scarseggia di registi davvero all’altezza e ha un parco attori, in parte da rottamare, che paralizzano con la loro ingombrante presenza il non più rinviabile rinnovamento. Il problema, ormai, è così palese che non è più possibile ignorarlo. Anche il pubblico più disponibile, come è sempre stato quello del Chiabrera, ha smesso di applaudire. Il “birraio” si è svolto in un silenzio, da mancanza di applausi, imbarazzante. Non c’è più il reverenziale rispetto per il mostro sacro, non basta più il prestigio della cornice mondana in cui si svolge il rito, si sbadiglia platealmente in sala e qualcuno abbandona persino il teatro dopo il primo atto.
Oggi tocca a Camilleri, e da teatrante, siciliano e fan del suo Montalbano, mi dispiace tre volte farlo. Il romanzo nulla toglie e nulla aggiunge alla sua fama, ma il passaggio in scena ha ben più di una lacuna. Ma è inutile chiedere a Montalbano di indagare per capire cosa non ha funzionato. La verità è sotto gli occhi di tutti quelli che… la vogliono vedere.
IL SIGNORE DEL CANE NERO STORIE SU ENRICO MATTEI
Le Sorelle Materassi
La grande estate di Verezzi sforna, uno dietro l’altro, solo successi. E’ indifferente la provenienza. Può essere il mondo cinematografico nostrano, come Parenti serpenti di Carmine Amoroso nell’allestimento di Luciano Melchionna per Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro, ben interpretato in una scena naif che sa tanto di presepe da un Lello Arena in stato di grazia. Possono essere le note del musical americano, come Serial killer per signora di Douglas J. Cohen nell’allestimento di Gianluca Guidi sempre per Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro, cantato e recitato magistralmente da Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia (per non dire della coppia Teresa Federico e Alice Mistroni), che si muovono a ritmo in una scena ipertecnologica di Annamaria Morelli ricca di carrelli telecomandati e videocomputergrafica. Può essere, infine, la serena campagna toscana anni ‘30 di Firenze-Coverciano, che rivive nella scena realistica di Roberto Crea, dove sono ospitate le pagine delle Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi, rivisitate da Ugo Chiti, nell’allestimento di Geppy Gleijeses per la Gitiesse Artisti Riuniti, che registra la recitazione memorabile di due grandi signore della scena quali sono Lucia Poli e Milena Vukotic. Tutto è stile, tutto è classe, tutto è successo a Verezzi50. Per favore dateci la quarta replica o sarete costretti a scontentare molti spettatori esclusi per il continuo sold out. La tirannia dello spazio mi costringe a scegliere di soffermarmi solo sulla tragica storia delle due ricamatrici cinquantenni; la dominatrice Teresa (Lucia Poli) e la sottomessa Carolina (Milena Vukotic) che, grazie al culto ossessivo del loro lavoro ed alla saggia amministrazione di Giselda (Marilù Prati), hanno acquisito una posizione di prestigio presso la buona società fiorentina. L’equilibrio familiare faticosamente raggiunto, anche grazie alla fidata domestica Niobe (Sandra Garuglieri), viene sconvolto dall’arrivo del nipote Remo (Gabriele Anagni), bello, spiritoso, pieno di vita, seduttivo e profittatore. Costui, oggetto di venerazione e di inconsapevole desiderio delle donne, approfitta della situazione per soddisfare ogni suo capriccio, portandole in breve sul lastrico. Solo un matrimonio con la ricca americana Peggy (Roberta Lucca) salverà Remo dalla catastrofe esistenziale ed economica, ma delle sorelle, cosa ne sarà? Raramente ci è dato vedere uno spettacolo dove l’intensità recitativa vibra ad ogni parola senza mai dover essere urlata da sottolineature bislacche; mai una scivolata nella gag fine a se stessa o nella maniera. Che lezione di teatro. Eppure, tra sussurri introspettivi, la tragedia affiora, eccome, nella dolce luce avvelenata del tramonto della campagna toscana. Chapeau.
MISERABILI
Fuori il Teatrobus non c’era, così imparo ad andare alla Rassegna del Teatro Giovani, loro non vanno in bus, vanno a piedi o meglio in motorino.
NAPOLETANGO
NON SI PAGA
Erano principalmente due gli elementi di interesse per assistere alla rappresentazione dello spettacolo “Non si paga! Non si paga!” (attualizzato in “Sotto paga non si paga”) di Dario Fo presente nella sezione Teatro giovani della stagione teatrale del Teatro Chiabrera di Savona. Il primo era quello di capire se, ad oltre trent’anni dal debutto del testo (che è del 1974), la materia trattata e la forma utilizzata fossero ancora validi e coinvolgenti; il secondo era comprendere quanto può fare a meno del Fo attore il teatro del Fo autore. Cosa dire per rispondere alla prima domanda? Ci sono due realtà di scrittura che si fronteggiano in Fo e, talvolta, si fondono in maniera convincente. Da un lato c’è il geniale meccanismo comico, sempre attuale perchè fuori dal tempo e che risponde alla esigenza profonda dell’uomo di ridere. Qui Fo è ottimo maestro e riesce a porre la tematica trattata (nel caso, l’aumento dei prezzi) in una maniera iperbolica, paradossale, a tratti surreale che ci porta a ridere in modo irresistibile di niente (vedi la scena in cui il protagonista gusta il miglio per canarini e il cibo per cani come se fossero leccornie), graffia e lascia il segno. Dall’altro c’è l’insopportabile lezione, datatissima, del Fo cattivo maestro, in cui il pistolotto politico-rivoluzionario procede implacabilmente, secondo i canoni retorici un po’ bolsi della pièce di formazione della coscienza rivoluzionaria di classe, per cui il padrone è sempre astuto e cattivo, il riformista è sempre un povero illuso... ma state attenti perchè sta prendendo coscienza ed allora... La realtà è un tantino più complicata. Ma Fo pare non accorgersene ed offende l’intelligenza del suo pubblico riducendolo ad un militante trinariciuto che tutto si beve. Fortunatamente c’è, nel teatro di Fo, un elemento significativo di sutura tra il livello alto farsesco e quello infimo politico, che se non giustifica la rivoluzione prossima ventura provocata dalla lotta di classe dura e senza paura, rende almeno plausibile un certo sommovimento sociale in atto. Quasi sempre il protagonista delle sue storie è un irregolare, un fuori di testa, che, proprio perchè è tale, difficilmente può essere inquadrato negli schemi sociali consueti. Questa sua diversità mette il sistema in contraddizione e lo porta ad un potenziale collasso. Il matto è al di là del bene e del male, al di sopra delle regole. Per lui non c’è regola sociale impositiva o repressiva che valga definitivamente a recuperarlo è un antagonista perenne perchè, strutturalmente, non segue regole. E’ la forma attualizzata del foul, del buffone di corte, dello zanni, del giullare e lo sberleffo sono caratteristiche di un certo modo di porgere la materia. La satira (Goldoni e Molière ce lo insegnano) è un’implacabile arma, la risata è temuta dai potenti. Fo, maestro di satira, per questo talento ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura. Fermo restando che sono lieto per il Nobel di Fo e che tutta l’Italia non può che essere orgogliosa per il suo premio, resta da chiedersi quale sia stato il meccanismo decisionale che ha portato la severa giuria svedese a tale scelta. Inutile dire che ci auguriamo che non si sia trattato del premio al Dario Fo politico, che per noi è veramente poca cosa. E gli interpreti? Senza infamia e senza lodo. Certo che l’assenza del Fo in scena pesa parecchio. Marina Massironi e Antonio Catania, sono comici che hanno ottenuto la fama dalla tv e dal cinema, con commediole leggere e gradevoli. Come se la cavano con il teatro comico-politico? Fanno il primo, strappano qualche risata, sopportano il secondo, ma non nascondono una spazientita insofferenza. Assecondano con diligenza i protagonisti Marina De Juli, Renato Marchetti e Sergio Valastro. La spartana produzione era di Produzione Cherestanì. Le bruttissime scene, le inesistenti luci, le modeste canzoni e la superficiale regia erano, spiace dirlo, firmate da Dario Fo stesso che, peccando della presunzione di voler controllare tutto, avrebbe forse impiegato meglio il suo tempo a potare il testo dalle tirate retoriche e lasciar reinventare la farsa da un altro regista. Ciò detto: viva la satira ed il teatro comico (perciò di vera denuncia) di Dario Fo. Uscendo da teatro un dubbio però rimane. Ma veramente la satira contribuisce a demolire il sistema? Quanto invece la satira giova piuttosto a chi la subisce e ne consolida il suo potere? La televisione ci ha mitridatizzato alla satira spietata ed alla denuncia, si pensi a Striscia la Notizia, a Mai dire goal, a Le Jene, a Zelig, ecc. al confronto il teatro di Fo è prosa da educande. Non vi sarà sfuggito che sono tutti programmi in cui i giullari sono stati profumatissimamente pagati con i soldi di Berlusconi. Ma non era lui il padrone astuto e cattivo contro cui si doveva prendere coscienza e lottare? Ancora una volta la realtà è un tantino più complicata.
I motivi di interesse sono numerosi. Mentre per Corrado Augias, autore di vaglia, si tratta di una bella riconferma, per quanto concerne la recitazione c’è un esordio eccellente, quello di Gherardo Colombo, e qui la realtà e la finzione curiosamente si incontrano. Il primo infatti, già corrispondente del settimanale L' Espresso e del quotidiano La Repubblica, è attivo da cinquant’anni nel settore teatrale con testi di ambientazione storica, ed ha vasta esperienza nei media, essendo stato conduttore di riusciti programmi televisivi su Raitre (Telefono giallo, Babele, Enigma) e curando attualmente il programma quotidiano Le storie – diario italiano. Diversa la storia del secondo. Infatti, già magistrato di inchieste che hanno fatto epoca (Loggia P2, Delitto Ambrosoli, Mani pulite, Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme), oggi, ritiratosi dal servizio, è attivissimo nell'educazione alla legalità nelle scuole (Premio Nazionale Cultura della Pace 2008). Oggi, prosegue il suo ruolo debuttando sulla scena.
Nell’elencare le “colpe” di Cavour, affiorano molte questioni irrisolte. Verità, mezze verità o fandonie? Scrisse a Rattazzi che “L'unità d'Italia è una corbelleria: ma ogni tanto la storia fa delle corbellerie”? Pensa che Le cinque giornate di Milano, furono un “diavolezzo” come proclamò Cattaneo? Veramente il maresciallo Radetzky presentò le armi agli insorti per rendere onore ai loro atti di eroismo dopo la riconquista di Venezia? La spedizione dei Mille di Garibaldi, cosa fu se non un atto d’aggressione nei confronti di un Regno legittimo in clamorosa violazione al diritto delle genti? Aver sottratto Roma al Papa non fu un gesto sconsiderato dal punto di vista religioso, civile e politico?
Cavour si difende da par suo (d’altronde il Risorgimento fu praticamente un suo soliloquio), ma sarà l’Italia, rivestita dal tricolore come nei varietà di una volta, che pretendendo di dire la propria versione dei fatti, farà pendere dalla sua l’ago della bilancia. Porterà come prove foto, documenti filmati, canzoni, opere liriche, versi, ecc.
Uno spettacolo intrigante, al ritmo incalzante della requisitoria; che, in definitiva, si conclude con la sospensione di giudizio, attento più a sollevare interrogativi e stimolare riflessioni che a dare risposte. Se ve lo siete perso andate a cercare in quale luogo si fanno le repliche, sarà questa l’occasione per fare, anche voi, un pezzo d’Italia, geograficamente e culturalmente.
Pioveva forte la sera in cui ho assistito alla rappresentazione di Questo buio feroce, pretestuosamente ispirato dal fortunoso ritrovamento in un’improbabile libreria della Birmania del testo “This wild darkness. The story of my death”, narrazione autobiografica della fine per Aids del poeta americano Harold Brodkey, (ma, per chi ne fosse interessato, assai più facilmente ritrovabile su Amazon, Paperback - Oct 1997 - Bargain Price from $6.80). L’allestimento, che del romanzo prende solo lo spunto, per effettuare in realtà una riflessione sulla propria esperienza di vita, è ideato e diretto da Pippo Delbono.
Entrare nella hall confortevole e calda del foyer del Teatro Chiabrera di Savona è già un attimo di sollievo. Non solo per me. Il pubblico che si accalca al bar ed assisterà tra poco al “provocatorio” spettacolo è praticamente lo stesso di sempre, quello, per capirci, della grandiosa prima di “Misura per Misura” di Shakespeare/Lavia. Evidentemente il supermarket imperante della cultura ci ha abituato non più a scegliere, ma ad essere scelti, in questo caso dall’offerta di un pacchetto abilmente confezionato nel formato mix. Penso che, forse, non dovrebbe essere un raffinato teatro d’opera ottocentesco ad ospitare uno spettacolo di questo genere, ma un luogo “altro”, che conferirebbe ben diversa dignità a tutta l’operazione, ma evidentemente siamo rimasti in pochi a credere alla coincidenza tra il medium e il messaggio, tra la forma e il contenuto o il contenitore se si vuole. Penso che questa “avanguardia contro (ma contro chi?)”, astutamente sdoganata dal ghetto dell’impegno, dalle istituzioni del potere culturale (che è sempre più realista del re pur di poter restare al potere), è ormai assurta ai massimi teatri europei ed ai suoi cachet naturalmente, ed è, evidentemente, felice di ciò, se vanta nella proprio palmares premi, una volta disprezzati, perchè tipici del teatro conservatore e reazionario ultratradizionale.
Penso. Ma una volta Paul Sartre non rifiutò un Nobel e Woody Allen non “si dimenticò” di ritirare un Oscar perchè occupato a suonare il clarinetto in un pub di New York? Evidentemente molto tempo e molte illusioni sono passati se anche Dario Fo è corso felice a ritirare il Nobel e Roberto Benigni non da meno ha fatto con l’Oscar.
Mi devo, evidentemente, dare una regolata d’aggiornamento, infatti è noto che Questo buio feroce, ha debuttato al Teatro Argentina di Roma nell’ottobre 2006 alla presenza del Presidente della Camera Fausto Bertinotti, ed è una prestigiosa coproduzione internazionale di Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Festival delle Colline Torinesi, Théatre de la Place Liegi, Théatre du Rond Point Parigi, Théatre National de Toulouse Midi-Pyrénées, Maison de la Culture d'Amiens, Le Merlan Scène Nationale de Marseille, le Fanal Scène Nationale de Saint Nazaire.
Si entra in sala con ancora una perplessità. L’operazione, in cui è specializzata la compagnia, e che gli ha dato la celebrità in Francia, cioè quella di sbattere il mostro in palcoscenico, di far esibire il diverso, l’handicappato, il folle, il disturbato mentale, il corpo martoriato dell’anoressico è un gesto di sdoganamento dell’emarginato, è uno choc salutare per la nostra indifferenza, per una società che ci ha mitridatizzato a tutto, oppure è un’operazione di sciacallaggio, un’operazione di marketing pseudo culturale per menti assopite che vogliono qualcosa di sempre più shockante per restare deste o, peggio, per provare un brivido che ricorda tanto i cruenti spettacoli splatter degli antichi Romani?
Uno sguardo ancora al foyer dove noto l’unica vera differenza rispetto al passato, un banchetto di sostenitori ginostradiani di Emergency che non si era visto l’altra volta (chissà perchè? Forse perchè questa sera si parla di AIDS? L’altra volta si parlava di piaghe sociali altrettanto gravi, eppure...).
Il sipario (sic!) si apre, è lo spettacolo ha inizio. Siamo in un ospedale della fantasia, dove il bianco è la dimensione del dolore. E di bianco è vestito il protagonista, come un dandy kirkegardiano che narra il tre passi nel delirio verso la sua morte. Ma non si tratta né di operazione biografica né autobiografica, si tratta piuttosto di idea “altra” di finzione, come presunta assenza di finzione, la contaminazione dello spettacolo con la vita, con la propria vita, come afferma Delbono citando Artaud. Insomma, sulla scena la distinzione tra persona e dramatis persona parrebbe non esistere più. Finzione e realtà, dovrebbero diventare finzione è realtà. Un passo avanti o uno indietro? Innovazione o regressione? E cosa vuol dire innovare? Creare qualcosa di nuovo che duri nel tempo. Se è così non dobbiamo scordarci che Antonin Artaud, il teorico del teatro della crudeltà, prima di essere definitivamente internato in un manicomio, era riuscito a produrre solo una magrissima pièce, “I Cenci”, per altro di impostazione tradizionalissima. Chissà Delbono?
Quello che si vedrà in scena, conferma i timori della vigilia. Si tratta di uno spettacolo linguisticamente tradizionalissimo, “facile”, accattivante al di là di ogni voluta sgradevolezza e crudezza. La genialità delle vite disperate/ è quello che io ti darò, dice in una sua grande canzone Paolo Conte e un gelato al limon... un gelato al limon. Questo appunto ci ha dato Pippo Delbono quella sera: un gelato al limon. Un prodotto viziato di calligrafismo visivo, stracci del terzo teatro, che volano via, il funerale del teatro povero, scelte di un teatro ricco, ma ricco di difetti, di astuzie e deja vu, (si va dal Tanztheater di Pina Baush, all’Odin Teatret di Eugenio Barba, dal Teatro Laboratorio di Jerzy Grotowski, al Cricot 2 di Tadzeus Kantor, giù giù sino a Maurice Bejart). Si tratta di uno spettacolo drammaturgicamente esilissimo, fatto dell’assemblaggio di spezzoni, in cui trovano posto le suggestioni onirico visive e le esercitazioni del training dei componenti della compagnia. Un collage in cui si susseguono senza soluzione di continuità scene che non spingono mai veramente alla riflessione, ma sempre alla suggestione ed all’emozione consolatoria, ora grazie a “gradevolissimi” quadri visivi, pensati come videoclip al ralenty (e l’esibizione da freaks alla Circo Barnum fa parte del gioco splatter), ora grazie ad un’ipnotica colonna sonora (volutamente classicissima e passatista). Nel frullatore del vissuto c’è posto per tutto: per la poesia di Emily Dickinson, per Caravaggio, per Botero, per Frank Sinatra, per Cenerentola e naturalmente per una denuncia nologo del consumismo. Ma non c’è niente da capire direbbe Francesco De Gregori. Solo lasciarsi emozionare.
Tecnicamente, come attore, Pippo Delbono è un paradosso. Sembra indaffaratissimo ma recita al risparmio, in maniera monocorde, con voce lenta, usando solo il microfono, sempre e solo sui fiati, si muove goffamente, esibisce il suo corpo ingrassato di cinquantenne, in un balletto goffo e patetico, prima vestito, poi, dopo essersi spogliato, lo ripete in mutande. Lo spettacolo è terminato. C’è chi applaude e chi no. Come al solito il pubblico si divide tra chi vi ha visto meraviglie e chi poco o nulla.
Che dire? Per me la delusione è profonda. Non ultima quella che, Pippo Delbono, l’ho avuto tanti anni fa come allievo attore e, proprio io, ho la responsabilità di avergli fatto conoscere, in un seminario sul terzo teatro da me organizzato a Savona Pepe Robledo, che allora ruotava attorno al danese Odin Teatret di Holstebro. Da allora hanno fatto coppia fissa, dando vita, negli anni alla compagnia che questa sera si è esibita qui. Sono davvero tanti quelli che in scena (e dietro le quinte) lo hanno assecondato con grande diligenza mimica e qualche esagerazioni vocale (visto che sfugge il senso di ciò che dicono): Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Raffaella Banchelli, Bobò, Margherita Clemente, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Gustavo Giacosa, Simone Gaggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo. Le scene spoglie sono di Claude Santerre. Il disegno delle sobrissime luci è di Robert John Resteghini. Il direttore tecnico è Sergio Taddei. Il fonico è Angelo Colonna. La sarta è Giada Fornaciari. L’organizzazione è di Christian Leblanc e Letizia Sacchi. L’ufficio stampa è di Simona Carlucci ed Agnese Doria. Le foto di scena sono di Gianluigi Di Napoli. Scene e costumi sono stati realizzati nei laboratori del Theatre de la Place Liegi.Ma se avessi previsto tutto questo/ dati causa e pretesto/ le attuali conclusioni... direi, come Francesco Guccini, chissà onestamente se lo rifarei.
Sam Capuozzo
E’ andato in scena al Cinema Teatro Comunale di Pietra Ligure nell’ambito della rassegna coordinata dalla provincia di Savona La Riviera dei Teatri, il divertentissimo avanspettacolo fondamentalista Sorelle d’Italia con la drammaturgia originale di Roberto Buffagni, la regia di Cristina Pezzoli, la direzione musicale di Alessandro Nidi, protagoniste Isa Danieli e Veronica Pivetti. Prodotto da Porto Venere Arcipelago Teatro 2010 con il contributo del Comune di Porto Venere e Il Mulino di Amleto, oggi lo spettacolo si avvale della distribuzione della AGIDI, la celebre casa di produzione di tanti successi di Aldo, Giovanni e Giacomo. Si tratta di uno spettacolo pensato e realizzato per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Tre tempi (Secessione – 2061 - Retromarcia) per rispondere alla fatidica domanda: come ci arriveremo, noi fratelli e sorelle d’Italia, al secondo Centenario dell’Unità d’Italia? In scena due pezzi da novanta per simpatia e popolarità: Veronica Pivetti, sorella minore di Irene militante leghista, già Presidente della Camera, volto notissimo televisivo (Quelli che... il calcio, Festival di Sanremo, Commesse, Qualcuno da amare, Il grande attentato, L'amore non basta, Il maresciallo Rocca, Provaci ancora prof, La ladra) e del cinema (Viaggi di nozze, Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica, Le giraffe) ed Isa Danieli, attrice teatrale (Eduardo De Filippo, Nino Taranto, Roberto De Simone) e cinematografica (Così parlò Bellavista, Io speriamo che me la cavo, Kirie) e televisiva (Capri). La fantastoria d’Italia è un pretesto che permette, in un match travolgente di bravura, a Veronica la Milanese e ad Isa la Napoletana, di boxare con canzoni, musica, balli e brani tratti da Bertolazzi, Viviani, Eduardo, Testori, Bramieri, Taranto, Totò, Fanfulla, i Gufi, Jannacci, Daniele. Ecco scorrere Nostalgia de Milan, 'O sole mio, O mia bèla Madunina, Santa Lucia luntana, U' Ferribotte, Nebbia in Val Padana, Napul’ è, ma non manca neppure l'operina buffa in cui Isa la Tirolese e Veronica l'Ottomana spiegheranno, con recitativi e romanze inedite, che cosa è accaduto nel nostro imprevedibile Belpaese. Assistere allo spettacolo è un salutare salto nel passato (anche se sarebbe più corretto dire, visto l’argomento trattato dal testo, nel futuro) che mette a confronto due diverse tradizioni di spettacolo minimo, la sceneggiata partenopea ed il cabaret meneghino, e due stili di recitazione contrapposti, la ridondanza e l’asciuttezza, la sovrabbondanza e l’essenzialità. Il miracolo è che si ride comunque, per oltre due ore, ed il match Sud-Nord finisce in assoluta parità, per palese superiorità degli interpreti.
"Un certo signor G" prodotto dal Teatro dell'Archivolto di Genova, per la regia di Giorgio Gallione con Neri Marcorè, andato in scena a Savona, al Teatro Chiabrera, ripropone, sintetizzandole in un unico spettacolo, le prime esperienze teatrali scritte da Gaber con Sandro Luporini, fra il 1970 e il 1974 (oltre al "Signor G", "Dialogo tra un impiegato e un non so", "Far finta di essere sani" e "Anche per oggi non si vola"), passando per "Il Dio Bambino" del 1993 fino all'ultimo disco, uscito postumo nel 2003, di cui Marcorè interpreta "Io non mi sento italiano". Per chi, come me, ha amato Giorgio Gaber sin da bambino, da Trani a gogò alla Ballata del Cerruti Gino, da Benzina e cerini a Non arrossire fino a Le strade di notte, che ha seguito tutti gli spettacoli del suo straordinario teatro-canzone, anche quando all’inizio eravamo quattro gatti ad andare ad ascoltarlo, perché “cosa ci fa lì uno così che si è compromesso con il Festival di Sanremo”, e lo ha amato ancora di più, quando, in anticipo sugli eventi, aveva segnalato il buco nero involutivo in cui si era infilata l’intellighenzia di sinistra, ed aveva ricevuto da lei un ostracismo velenoso, andare a vedere "Un certo signor G", è stato un pugno al cuore. Perché? Semplice. Lo spirito artistico, e quindi contenutistico, più vero di Gaber è stato tradito. Vedere un “campione della cultura popolare”, quale lui è sempre stato, venire messo in scena con un aplomb plumbeo concertistico di operazione culturale di marca cabarettistico-mitteleuropea, fa cadere le braccia. Ci torna in mente la sua dolce ballata sugli intellettuali che si sporcavano la barba castrista-guevariana di gelato mentre, al Bar Casablanca, esibiscono i titoli rossi dei loro giornali e parlano di una rivoluzione e di un proletariato di cui, naturalmente, ignorano tutto. Fa male sentire la cantabilità di Gaber affogata nel martellante percussionismo intellettualistico-ossessivo di due pianiste (Silvia Cucchi e Vicky Schaetzinger, su elaborazione musicale di Paolo Silvestri), che soffocano l’esile voce, non sempre intonatissima, di Marcoré. Fa capire quanto sia datata l’operazione, che in realtà vuole passare, purtroppo, per una scelta colta ed impegnata. Una volta si sarebbe detto “fuori dalle logiche consumistiche”, quindi di sinistra. Fuori luogo poi alcune “attualizzazioni” con battute del calibro “Disoccupazione giovanile in aumento. Il premier ribatte: cribbio, ma non invecchiano mai?”, oppure “La Lega al congresso davanti a un bivio. Padania o Parmigiania Reggiania?”, che non riescono a strappare una increspatura di sorriso neppure al più ottuso veterorosso trinaricuto, e quel clima claustrofobico delle scene di Guido Fiorato, fatte di decine di fogli di giornale che ricoprono il palco e di cui sono foderate porte e finestre della casa ideale del signor G, che, sai il colpo di teatro, saranno strapppati un poco per volta nel corso dello spettacolo, fino a permettere ad un grosso topo di penetrarvi dentro (chissà chi era e cosa significava, forse “Il grigio” mormorava qualche ben informato in sala). Scusate tanto ma Gaber, volava molto più in alto e si faceva capire da tutti, colti ed ignoranti, questa la sua grandezza. “Scusate tanto se parlo di Maria”, diceva Gaber, mettendo alla berlina chi gli rinfacciava il “cedimento” ad una pura canzone d’amore rispetto alla necessità della battaglia ideologica per il monopolio delle coscienze, quelle parole ci dicono tutto… ma forse Gallione non le ha veramente capite e Marcorè gli è andato dietro… per cento lunghi minuti.
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