Regione della separazione:
Quel lampione
anima di schizofrenico
che è un guscio di luce
ed uno stelo di ghiaccio
sono io che mi scoloro
pezzo lacero di carne e cervello
e divenuto acqua e buio.
Quel lampione.
Il mio lampione.
L’azione si svolge ora nella prima balconata ed ha come fulcro due palchi contrapposti. La difficoltà con cui un gruppo di attori deve cercare di raggiungere l’altro nascono dietro un telo in modo da superare la forzata separazione, è il motivo ispiratore dei gesti.
Ad un tratto per l’eccessiva vicinanza di un attore (un mendicante dal cuore d’oro) le mani dell’attrice nascosta dietro il telo (una nevropatica) l’afferrano e la trascinano dentro il palco dove ha inizio un delicato incontro d’amore, di cui gli spettatori potranno vedere solo le ombre proiettate dietro il telo.
Ogni sera, quando accendo la luce,
fuori dalla finestra vedo la stanza di un altro
con gli stessi mobili
con le stesse parole
con lo stesso volto.
Solo il corpo rimane al di qua,
e diversa è l’attesa.
Ogni notte, quando spengo la luce,
sono sicuro che qualcuno entrerà
nella stanza dell’altro
e certo per fare l’amore.
Allora mi stringo la testa tra le mani
per non sentirli.
Regione dei morti:
Non temete, il vostro giorno è sicuro,
perché le mani dei morti, non viste,
non si sono stancate di reggere il cielo pesante
e voi potete credere ancora che il cielo si regga
sulle vostre preghiere,
e su uno sguardo di donna,
che si alza più sottile di una colonna di fumo.
Non temete, voi troverete la strada anche se è tardi
anche se in casa hanno spento la luce,
perché i passi dei morti, non visti,
percorrono sempre i sentieri
che l’uomo dimentica,
affinché l’erba non li ricopra.
Non temete, la vostra sete avrà fine,
perché la notte quest’acqua non ghiaccia
finché la guardano gli occhi dei morti non visti.
L’azione si svolge adesso nel loggione dove la ritmica successione delle porte che dal corridoio danno accesso al loggione ricordano idealmente la squallida sequenza dei loculi delle colombaie. In questo intrico di entrate ed uscite compaiono gli attori. Solo la luce tremula delle candele.
Io ti invidio pietra di riva
che ad ogni onda ti fai più leggera,
perché ogni onda ti scioglie un ricordo
di quando eri pietra davvero,
eri dura, tagliente,
mentre ora non sai più nemmeno ferire.
Così fosse la morte per noi,
come un’ultima onda
che ci coglie quando siamo leggeri
e scioglie l’estrema memoria.
Mezzosangue, biondona e biondina continuano il loro slalom tra le porte. Un telo serve a rendere più difficile il loro stacco dagli stipiti.
Noi morti per non finire
nascondiamo nei vostri occhi uno sguardo segreto,
che a palpebre chiuse,
vi mostra lontani trapassi di luce.
E su queste mani, il nostro tatto
diventa pelle sottile,
che persino il velluto ferisce.
Il vetro opaco di sguardi
e sul letto disfatto
qualcuno ha lasciato vuoto il guscio del sonno.
Anche il sogno è l’abito smesso
dove senti l’odore dell’altro.
Quell’ombra è rimasta sul muro
come fumo d’inverni appeso a pareti crollate.
E la stanza deserta
non ha più spazio neppure per le parole.
Questo giorno davvero ce lo vivono gli altri:
ma ti tieni attaccato al domani
l’oscura speranza che forse,
lascerai questa vita ad un altro
ancor più logora e vuota;
radice segreta
che ormai tocca la pietra nel fondo.
Solo l’eco di un canto funebre riempie adesso l’aria.
Il suonatore di corno
ventre obeso di paranoia
spruzza saliva e bava nell’ottone
per vomitare il lugubre allarme.
Magro sull’omero un bozzagro
gli rosicchia le falangi informi e becca
goloso di sangue
i ventricoli del cuore
finché l’ottava che scema
lancia laceri schizzi di suoni disarticolati
calanti fino all’unisono
nel sacco d’aria forato che si sgonfia.
Chiara s’intende adesso la logica del suono:
la morte si scorda solo di chi ha come rifugio
una lapide di marmo.
Solari regioni diffuse.
Io desidero una sponda senza mare
e un mare senza rive, quando la marea trabocca
nel vuoto.
Marea impotente ed abitudinaria,
che torni per distruggere ogni giorno
ed una linea d’erba e di catrame basta a fermarti,
tu che insegni la speranza e la dispersione
e guardi al sale dell’ultima tempesta
come noi alla pietra del ricordo; marea impotente ed abitudinaria
che costruisci nel tempo un altro tempo,
insegnaci almeno - se altro non puoi –
la rabbiosa pazienza della corrosione.
Il gruppo resta attonito. Qualcuno di loro scopre allora un telone piegato sul fondo e lo trascina al centro della sala. Forse la paura, forse il tentativo di mascherare meglio i propri segreti, ecco che tutti all’improvviso decidono di nascondersi sotto di esso. Si scopre allora che esso è forato.
L’ultima residua speranza di nascondere lì sotto i propri segreti si sperde definitivamente.
Man mano dai fori spuntano teste e braccia. Qualcuno vorrebbe scappar via da questa grande camicia di forza collettiva in cui si è trasformato quello che doveva essere il loro rifugio.
Ma impedito come è dagli altri, finisce per dar vita ad una pantomima stereotipata e meccanica.
Pian piano però i più scalmanati si calmano e tutti insieme cominciano a coordinare i loro movimenti. Appare allora il tutto come un grande albero con i frutti appesi ai rami oscillanti al vento.
Regione del segreto
Incitati dal presentatore e dall’entreneuse tutti cominciano coralmente ad esprimere il loro nuovo stato.
Il noce dell’orto dopo la pioggia:
migliaia di occhi.
Non so più dove nascondere i miei segreti.
La ferita del loro stupore è dunque aperta sotto gli occhi del pubblico. Sul fondo sopra una quinta del palco gocciola e cola sangue. La sua vista li sconvolge: lo additano esterrefatti.
Non c’è più neppure la possibilità di nascondere i propri dolori.
Il mio segreto è la ferita nascosta
che in bocca mi da il sapore del sangue.
Ma quel sapore e quella ferita
tu potresti sentirli soltanto se mi baciassi.
La loro vita è dunque solo un telo sottile sporco di sangue. Controluce si scopre in basso un piccolo strappo. Da esso la luce filtra e disegna una piccola falce di luna. Poter lacerare, afferrando i lembi di quello strappo, tutto quanto per scoprire finalmente quale guasto si nasconde sotto!
Quando il cielo ti sembrerà più buio, la notte,
e non vedi una piega né un appiglio,
guarda in un angolo in basso;
vedrai lo strappo di una piccola unghiata di luna.
Prendi quel lembo tra le due dita.
Tutto il drappo lacera all’improvviso:
ancor più buio, nemmeno le stelle.
Il drappo si lacera ormai. Sotto di esso, che vola lacerato nell’aria restano solo i corpi nudi che scappano vergognosamente per nascondersi. Ma un vento ormai scuote tutto intorno e spazza il polistirolo dal sacco. Cala la notte e si riempie di lampi; allo loro luce si vedono i corpi nudi erranti in preda al delirio che agitano gli arti in un pantomima impotente.
Date vento alla terra,
perché abbandoni quest’orbita stanca
che a malapena la regge.
Date vento alla terra
perché gli uomini nati su un’orbita nuova
dinanzi a meridiani e telescopi
follemente orientati
si chiedono qual’era il nostro segreto.
Date vento alla terra
perché nessuno la scopra.
Per loro non c’è dunque che l’impotenza ed il silenzio. Per qualcun altro (forse il pubblico, chissà?) non tutte le speranze sono perse.
Commiato (forse un monito)
La scena torna tranquilla una musica lenta e solenne pervade l’aria.
L’entreneuse e il presentatore sfilano tra di loro verso il sacco del palco e li conducono dentro verso la loro tomba, dove qui giunti si seppelliscono.
A voi non lasceremo né il sole né la notte,
questo li potrete trovare o perdere
anche da voi se lo vorrete.
Noi vi lasciamo solo un silenzio grande,
perché più nuova e forte sia la vostra voce.
Ricordate anche ciò che noi dimentichiamo
perché eterna diviene ogni parola
se una volta soltanto la puoi dire.
Ricordate anche ciò che noi dimentichiamo
quando sulla parole sentirete il sale della nostre bocche.
Noi vi lasciamo solo una silenzio grande
come di un mondo che non abbia inventato la parola
come di un mondo che forse la già dimenticata.
Ricordate anche ciò che noi dimentichiamo.