martedì 3 gennaio 2023

Corso base di scrittura creativa: Lezione 15 La critica teatrale teatro straniero moderno

A Chorus Line
Parlare di A Chorus Line, il musical andato in scena recentemente presso il Teatro Chiabrera di Savona, vuol dire parlare di un grande classico contemporaneo. Come tale, nel bene e nel male, va trattato.
Intanto un poco di storia ci aiuterà a capire come e perché questo musical è diventato un cult. Andato in scena per la prima volta a Broadway il 25 luglio 1975 allo Shubert Theatre, e rimastoci fino al 28 aprile 1990, dopo 6.137 esibizioni, fu per alcuni anni lo show più longevo a Broadway (fu superato prima da Cats nel 1997 e recentemente da Il fantasma dell'opera). Il musical, nato quasi per caso, si basa su diversi workshops registrati con ballerini di Broadway, otto dei quali entrarono a far parte del cast originale. Fu prodotto e presentato Off-Broadway al The Public Theater, concepito, diretto e coreografato da Michael Bennett, con le musiche di Marvin Hamlisch e i testi di Edward Kleban. Il libretto è di James Kirkwood e Nicholas Dante. Il successo fu subito immenso e ricevette, nel 1975, 12 nominations per i Tony Awards, vincendone 9; mentre  nel 1976, vinse anche il premio Pulitzer per il teatro, uno dei pochissimi musical ad aver avuto questo onore.
Nel 1985 fu distribuita dalla Colombia Pictures una versione cinematografica con Michael Douglas nella parte del coreografo Zach. L'adattamento fu creato da Arnold Schulman e il regista fu Richard Attenborough. Ma il film fu assai controverso poiché, per gestire senza eccessivi problemi una distribuzione planetaria, furono molto attenuati gli elementi omosessuali della versione originale.
Nel 1998 A Chorus Line approda in Italia, con la regia di Saverio Marconi della Compagnia della Rancia ed Antonella Elia nel ruolo di Christine tra i protagonisti. Nel 2006 il successo di A Chorus Line giunge a Gardaland, che lo manda in scena nello spettacolo Broadway Celebration - il musical dei musical all'interno del maestoso Gardaland Theatre. Il 6 ottobre 2006 A Chorus Line torna in scena a Broadway in una versione rivisitata che sta ancora una volta conquistando il pubblico.
L’edizione italiana, a cui abbiamo assistito, è quella del 2008, prodotta dalla Compagnia della Rancia e da Giacaranda, con la regia associata di Baayork Lee e Saverio Marconi, nel riallestimento curato da Luis Villabon. Baayork Lee è una delle più profonde conoscitrici di A Chorus Line, oltre ad essere stata la ballerina che ha originariamente ispirato, con la sua vita reale, la storia di Connie, ha diretto e riallestito le coreografie originali di decine di edizioni del musical in America e in tutto il mondo e ha curato le coreografie dell’edizione attualmente in scena a Broadway.
Il cast italiano della stagione prevede: - Zach: Christian Amadori - Val: Lucia Blanco - Judy: Federica Capra - Larry : Andrea Cerchia - Vicky: Paola Ciccarelli - Bobby: Roberto Colombo - Paul: Simone Di Bucci - Al: Aldo Esposito - Mark: Antonio Franco - Don: Giuseppe Galizia - Sheila: Lynn Jamieson - Maggie: Floriana Monici - Roy: Fabio Monti - Connie: Fiorella Nolis - Cassie: Paola Quilli - Tricia: Laura Safina - Diana: Annamaria Schiattarella - Mike: Luca Spadaro - Frank: Gianluca Spatti - Bebe: Maria Grazia Valentino - Ritchie: Guy Van Damme - Greg: Nicola Zamperetti - Kristine: Manuela Zero
Perché questa messe di dati dettagliati? Perché sono essenziali per comprendere un prodotto cult. Infatti, la più grande preoccupazione dei detentori di diritti del musical, è quella che lo spirito e la lettera originali siano riprodotti con fedeltà assoluta, sempre identici a se stessi, quasi mummificati a preservarne l’originale humus. E’ questa una operazione poco comprensibile per noi europei, ma essenziale per gli americani che, essendo un popolo senza tradizioni letterarie plurisecolari come le nostre, preservano la contemporaneità con lo stesso riguardo di rispetto storico e di fedeltà all’originale, che noi non abbiamo più neppure per i grandi classici di qualche secolo o millenno fa.
Ma se una rivisitazione del musical viene considerata quasi una profanazione, A Chorus Line deve essere visto non con gli occhi critici della attualità, ma con quelli severi del filologo, preoccupato soprattutto di ritrovarlo identico a se stesso e a denunciare anche il minimo mutamento.
Se infatti dovessimo esprimere un giudizio secondo il primo criterio, ci verrebbe da dire che, a vederlo oggi, lo spettacolo risulta quasi ingenuo nelle problematiche sociali e nelle coreografie, quindi inevitabilmente invecchiato. Non un musical dirompente, si pensi alle tematiche omosessuali, all’epoca audacissime anticipazioni, ma oggi comunissima materia di dibattito per grandi e piccini, o alle sofferte sedute di autoanalisi tra aspiranti ballerini e regista, che ci fanno sorridere se paragonate all’occhio impietoso dei reality tv. Analogo giudizio toccherebbe alle coreografie, talmente semplici ed abbozzate, che non le accetteremmo neppure come saggi scolastici dei talent show televisivi di giovanissimi esordienti. Anche la trama è di una semplicità quasi dilettantesca, che non basterebbe neppure per l’incipit di una  puntata di un serial televisivo; pensate che complessità: in un teatro di Broadway a New York, alcuni giovani pieni di speranze stanno facendo dei provini per un lavoro come ballerini di fila (la linea del coro, appunto, che dà il titolo) in un musical… e allora? Alcuni saranno presi, altri no. Sì, ma allora? Allora basta. Finito. Tutto lo show dà un rapido sguardo alle personalità degli attori e dei coreografi che si troveranno alla fine a ballare e a danzare sulla più celebre ed orecchiabile canzone del musical, One.
Ma se lo giudichiamo con quell’attenzione rituale che gli americani dedicano ad esso, lo vogliamo proprio così, identico a se stesso, per assistervi come a un salutare bagno di nostalgia, un c’era una volta, un come eravamo; per indossare, da bravo pubblico partecipante attivamente, la maglietta del musical e ripetere, un secondo prima che le dica l’attore, le battute esatte del copione o cantare quella vecchissima canzone e danzare quella datata coreografia, papere incluse. E ripetere, senza capire troppo l’inglese… all is the folk.

ART
 
Un grande testo di un’ottima autrice, con un mediocre allestimento ed una modesta interpretazione. Questo in sintesi il giudizio che posso dare di Art di Yasmina Reza andato in scena al Teatro Chiabrera di Savona, per la regia di Giampiero Solari e l’interpretazione di Alessandro Haber, Alessio Boni e Gigio Alberti.Liquidiamo con poche battute un allestimento lento e stucchevole fatto di teli bianchi che scorrono ad individuare salti temporali ed ambientali. Ma anche la scarsa autorevolezza registica nel dare la necessaria unitarietà nella direzione degli attori che sembrano lasciati soli a gigioneggiare sulla scena. Ed infatti puntualmente danno il peggio di sé quando si slanciano in monologhi ora urlati ora biascicati fino al limite dell’intelligibilità.Mi preme invece parlare più a lungo del testo. Credo che ne valga a pena. L’autrice, un vero e proprio melting pot di lingue, razze e religioni, padre iraniano, madre ungherese, religione ebraica, non poteva che nascere nella cosmopolita Parigi (che come dice Paolo Conte nella sua struggente Blue tango “accoglie i suoi artisti, mimi, poeti e musicisti…”), e qui prosperare. Adottata dai francesi, che sanno fare della multiculturalità un valore e non un pretesto di emarginazione, ha iniziato una carriera artistica variegata che l’ha portata, dopo una consistente pratica scenica come attrice, a padroneggiare una tecnica di scrittura drammaturgica magistrale.
In passato l’avevo già ben recensita per il suo testo “Il dio della carneficina” (a mio parere il migliore spettacolo della scorsa stagione al Chiabrera) e mi ha fatto un gran piacere ritrovare conferma di questo mio giudizio nel grande successo avuto nella traduzione cinematografica fattane per Roman Polanski, quel Carnage che, grazie anche alla grande interpretazione datane da Jodie Foster, ha sfiorato il Leone d’oro alla 68ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Art, fatto di una trama esilissima e di soli tre personaggi maschili, è tante cose insieme: storia di un bluff (quello dell’arte contemporanea), storia di un’amicizia virile (e fa specie che a parlare così bene dell’intimo maschile sia una donna), storia di un disvelamento con scena madre finale (così tipicamente yiddish).
Di alcune cose vale la pena approfondire. Intanto il coraggio di parlare, apertis verbis, senza complessi di inferiorità provincialotti di quel gigantesco castello di menzogne critiche che serve a sostenere l’aura pecuniaria del grande circo Barnum di tanta pseudo arte contemporanea. Il caso qui è emblematicamente quello di una tela bianca acquistata per una cifra astronomica.
La Reza ha il coraggio, un secolo dopo, di fare la pipì dentro il celebre ready-made Fountain del dadaista Duchamp, riconoscendolo per quello che era (un orinatoio rovesciato firmato R. Mutt 1917) e negando allo pseudo artista il diritto di considerare il suo ritrovamento improprio un’opera d’arte. Ma questo coraggio di dirlo al gonzo acquirente del carissimo capolavoro lo avranno gli amici? E qui scatta la grande catapulta della verità: c’è chi non ce la fa più e sbotta. Ma se uno sbotta, allora tutti sbottano. I rospi ingoiati sono tanti e sputarli fuori fa male, a chi sputa e a chi riceve lo sputo. Il taciuto diventa un masso scagliato contro l’esile equilibrio amicale, fatto di sopportazione, di idiosincrasia e di non detto. La menzogna sembra edificare, la verità distruggere. Chi vincerà? Nella scena devastata del day after quella che si leva è un’aria fredda ma salubre. Ma come avevamo potuto vivere fino ad allora crogiolandoci nel calduccio dello smog? Ma soprattutto sapremo ancora continuare a farlo in futuro? Probabilmente è anche questo l’amicizia, sapersi dire che quel tepore è smog.

BOEING BOEING

BOEING BOEING di Marc Camoletti (di cui ricordiamo l’irresistibile versione cinematografica del 1965 con Tony Curtis e Jerry Lewis), andato in scena in prima nazionale nella 46^ Edizione del Festival Teatrale di Borgio Verezzi è una di quelle macchine sceniche perfette che somigliano tanto ad un congegno meccanico ad orologeria: noi possiamo largamente prevedere quanto succederà, nondimeno ogni nuovo movimento (nel nostro caso ogni nuovo colpo di scena) non finisce di stupirci e lo attendiamo ansiosamente. La trama è semplicissima. Bernardo, un architetto italiano di stanza a Parigi, da buon donnaiolo impenitente, ha escogitato un ingegnoso sistema per rimanere fidanzato contemporaneamente con tre differenti ragazze, hostess di diverse compagnie aeree, che prestano servizio su linee internazionali senza mai incrociarsi. Ognuna si trova a Parigi quando le altre sono in volo o comunque in un altro Paese. Per destreggiarsi tra gli arrivi e le partenze delle fidanzate, il nostro possiede una vera e propria tabella di marcia che gli permette di accompagnare Gloria (americana) in partenza all'aeroporto esattamente quando arriva Greta (tedesca), mentre Gabriela (spagnola) si trova in un'altra parte del mondo. Con l'aiuto della sua pazientissima domestica Berta (la quale si preoccupa tra l'altro di cambiare le foto, i menu dei pasti e la biancheria in base alla permanenza di ogni ragazza), nessuna delle tre avverte minimamente la trascorsa presenza in casa di un'altra. A dare una ulteriore accelerazione alla vita di Bernardo c’è l'arrivo di Roberto, un vecchio amico ed ex compagno di scuola, che non trovando una stanza d'albergo libera si stabilisce nel suo appartamento, garantendogli che si tratterrà solo per pochi giorni. Tuttavia accortosi dello stile di vita condotto da Bernardo, lo trova elettrizzante e passa rapidamente dallo stupore iniziale ad un attivo coprotagonismo. Tutto si svolge nel migliore dei modi, ma il sistema comincia a vacillare quando le ragazze danno la "bella" notizia che saranno tutte spostate a breve su aerei nuovi, migliori (i Boeing), più potenti e quindi più veloci, che permetteranno loro una più lunga permanenza a Parigi. Questi cambiamenti stravolgono totalmente la tabella di marcia di Bernardo, che si ritrova con tutte e tre le fidanzate nello stesso momento a Parigi. La commedia degli equivoci tocca il suo apice. Con inevitabile “catastrofe” e soluzione catartica finale a lieto fine. Ogni incastro in scena è perfetto (d’altronde guai se non fosse così), merito del giovanissimo regista Matthew Warchus che ha riproposto la regia originale di Mark Schneider (artefice del successo della riedizione americana, vincitrice del TONY AWARD 2008 come miglior revival anni 60), merito della scenografia, raffinata e funzionale di Rob Howell, ma soprattutto merito degli attori, guidati da un travolgente Gianluca Guidi (architetto dongiovanni), a cui fa da “spalla” (e molto di più) Gianluca Ramazzotti (amico fidato e complice). Attorno ruotano delle ottime caratteriste: Ariella Reggio (la domestica), Marjo Berasateguei (hostess spagnola), Ela Weber (hostess tedesca) e Barbara Snellenburg (hostess americana). Tre bellissime e bravissime attrici che si gettano anima e corpo (ma soprattutto corpo) nel ruolo di seduttrici dell’impenitente casanova. Due ore di risate intelligenti in uno spettacolo decisamente popolare ma non per questo meno intrigante e valido di altri presenti nel festival, forse più impegnati nelle tematiche affrontate. Il bilancio di questa edizione del Festival è decisamente positivo, con risultati superiori alle attese (essendo questo decisamente un anno di magra economica). In totale gli spettatori sono stati quasi novemila (10% in più del 2011 e gli incassi sono cresciuti del 13%). Rendiamo quindi merito al direttore artistico, Stefano Delfino, che è riuscito ad allestire un sapiente mix che ha catturato una crescente attenzione del pubblico.

CANCUN


Grande spettacolo quello a cui abbiamo assistito per la prima nazionale assoluta della piece messa in scena da La Contrada – Teatro Stabile di Trieste andata in scena a Borgio. Con Cancun Jordi Galçeràn Ferrer (drammaturgo catalano, già autore dei pluripremiati Il Metodo Grönholm e di Parole Concatenate) ci consegna un testo ben più importante di quello che l’apparente superficialità comica delle gag lascia intendere. Dietro la surrealtà che ammanta tutto il testo (una realtà al quadrato ci scappa di dire), c’è un preciso sottotesto sulle relazioni e sui desideri inconfessabili dell’amore coniugale. La semplicità della trama (la storia narra di due coppie di amici che vanno in vacanza a Cancun, meta perfetta per celebrare oltre vent’anni di amicizia) si avvale dell’espediente del “cosa sarebbe successo se…” (ricordate Sliding Doors?). Se la nostra vita è andata così è perché non poteva essere altrimenti o è tutto colpa del caso? Insomma voi state dalla parte di There But For Fortune di Joan Baez o di Rien, je ne regrette rien di Edith Piaf? Minimalisti o decisionisti? Siete vittime più o meno inconsapevoli degli eventi o appartenete alla razza del Volli sempre volli fortissimamente volli? Oppure c’è una terza via, quella di Giulio Cesare e del suo Alea iacta est, mix di caso e di volontà? Il testo ci darà una risposta, anzi tre. E ci fa riflettere. La regia attenta e rigorosa di Marco Mattolini (un artista di lungo corso, dalla prima situation-comedy italiana, Zanzibar, sino alle numerose serie della seguitissima Carabinieri) non indulge a lasciare spazio a protagonismi mattatoriali, ma coordina con rigore un quartetto di attori di prim’ordine. In primis Mariangela D’Abbraccio (attrice eduardiana, pirandelliana, shakespeariana, cechoviana, ma anche cinematografica e televisiva nella soap opera Un posto al sole) e Blas Roca Rey (l’ex di Amanda Sandrelli, già protagonista di film come Facciamo fiesta di Longoni, Ricordati di me di Muccino, La cena per farli conoscere di Avati, e di serie tv quali Don Matteo, Distretto di polizia, Il giudice Mastrangelo, Un posto al sole, Fuoriclasse ). Ma benissimo si comportano anche i comprimari Giancarlo Ratti (voce storica del cult radio Il ruggito del coniglio, protagonista televisivo di Per un pugno di libri, Don Fumino, Il mammo, Anna e i cinque, Un posto al sole, e cinematografico di Andiamo a quel paese di Ficarra e Picone, ma soprattutto notissimo per il personaggio di Antonio Barilon nella serie tv I Cesaroni) e Nicoletta Della Corte. Le scene funzionali sono di Francesco Fassone, il disegno delle luci di Bruno Guastini, i costumi di Andrea Stanisci. Belle e pulsanti le musiche di Massimiliano Forza, succosamente arrangiate da Fabio Valdemarin. Una gioia e due rammarichi a fine serata. Fa bene allo spirito ed al teatro assistere a spettacoli come Cancun perfetta metafora indeterminata di una doppia coppia. E questa è una ricchezza. Ma vanno segnalate anche due povertà. Torniamo a chiederci, per l’ennesima volta, perché una drammaturgia contemporanea italiana (se esiste, per favore, batta un colpo) fa tanto fatica a decollare ed i testi bisogna cercarseli a Barcellona scritti in dialetto catalano? Infine, più che un rammarico, un timore: il prossimo anno ci sarà l’edizione 50 del Festival di Borgio? There But For Fortune? Speriamo proprio di no.

Il catalogo

Le premesse c’erano tutte. Un autore cult: Jean-Claude Carrière, come dire lo sceneggiatore più in della cinematografia e del teatro engagé europei (Luis Buñuel, Marco Ferreri, Miloš Forman, Louis Malle, Jean-Luc Godard, Andrzej Wajda, Peter Brook, Jacques Tati e scusate se è poco). Due colonne del cinema italiano, Ennio Fantastichini (I ragazzi di via Panisperna, Porte aperte, Saturno contro, Mine vaganti) ed Isabella Ferrari (Sapore di mare, Willy Signori, Arrivederci amore, ciao, Caos calmo). Un regista sperimentatore Valerio Binasco. Fiduciosi in una bella serata, prendiamo posto nella platea del Teatro Comunale Chiabrera di Savona, dove lo spettacolo Il catalogo (titolo originale L'Aide-mémoire) conclude la stagione “maggiore” 2011-2012. Sono bastati pochi minuti per rendermi conto del vuoto che avevo davanti e che si sarebbe protratto per poco più di un’ora. Una storia sconclusionata, priva di ogni più elementare plausibilità, portata avanti con pretesti più che con coup de theatre (nel gergo critico si nobilita questa penuria con il termine minimalista), tributaria di una infinità di altre opere (con abile glissata da addetti ai lavori, si è soliti parlare di citazionismo): i primi che ci vengono in mente sono, le innumerevoli pièces su Don Giovanni, il pirandelliano Sono come tu mi vuoi, giù giù a scendere passando per il trumancapotiano Colazione da Tiffany fino al nataliaginzburghiano Ti ho sposato per allegria. Giudicate voi la credibilità della storia e dei personaggi. Jean-Jacques, è un avvocato parigino, scapolo, metodico ed abitudinario, neanche tanto affascinante nell’aspetto e certamente non ricco, visto che vive in un squallido molocale. Come possa questo uomo senza qualità essere un tombeur de femme è già un dato che stride. Tant’è che l’impenitente sciupafemmine, è per giunta smemorato, per cui è “costretto” (da chi? dalla sua vanità di gallo cedrone?) a catalogare in un album tutte le sue conquiste. Ora con un salto mortale psicanalitico della cui banalità si vergognerebbe uno psicologo della mutua alle prime armi, questa bulimia femminara dovremmo leggerla come sintomo di vuoto e solitudine. Provate a dirlo a chi è veramente solo, ma siate veloci nello schivare il forcone col quale cercherà di omaggiarvi. Dalla porta del monolocale lasciata aperta sbadatamente dall’uscita dell’ennesima donna rimorchiata (di cui non è difficile immaginare l’alta classe), quasi ci trovassimo in un saloon con gente che va gente che viene, entra in casa una certa Suzanne dalla personalità, ottimisticamente parlando, disturbata (lo perdoni Leonard Cohen che nel 1967 pubblicò la struggente ballata Suzanne, un capolavoro che ha fatto il giro del mondo e di cui Fabrizio De André ne ha dato una memorabile versione italiana; vale la pena ricordare che L'Aide-mémoire è del 1968). Il pretesto è la ricerca di un certo Philippe Ferrand, è stanca e vuole un letto dove mettersi a dormire anche se è prima mattina (gli alberghi le fanno paura, ma evidentemente non le strade). Naturalmente il “catalogo”, che il narcisista usa come livre de chevet, è la prima cosa su cui la svampita mette le mani, con conseguente moralistica ramanzina (da che pulpito…). Cerca comunque con cura se il suo nome è nel catalogo. Non si sa mai, l’amnesia è contagiosa in quella casa. Il nome non c’è, il passato comune non esiste. Nemmeno quello. L’ineffabile Jean Jacques non si stupisce più di tanto dell’accaduto, si vede che è un uomo di mondo. E dopo aver debolmente cercato di mandarla via, la lascia sola a casa e va al lavoro. Vi lascio riflettere sulla plausibilità di una scelta che farebbe inorridire non dico un poliziotto di quartiere ma persino un’assistente sociale di larghe vedute. Chi si mette in casa uno sconosciuto e lo lascia dormire nel proprio letto? Un pazzo che se le cerca. Evidentemente il disturbo mentale della donna è contagioso. Lo sviluppo, prevedibilissimo, passa attraverso una serie di incontri in cui non succede letteralmente nulla e la storia (?) procede sul versante dell’unione di “due solitudini” (ci perdonino le cartine dei Baci Perugina). Per farla breve: non si sa come non si sa perché l’intrusa non sloggerà più dall’appartamento, anzi costringerà il legittimo proprietario (che avendo perso il senno, nel frattempo, ha perso anche il lavoro) ad andarsene e lei ne diventerà la padrona, non disposta ad ospitarlo se non saltuariamente e per brevissime visite, dimostrando una crudeltà veramente unica. L’uomo colla valigia finirà in mezzo alla strada, e siamo certi che non sarà ospitato da nemmeno una delle sue 134 amanti maniacalmente catalogate. Vista l’improbabilità del testo (che non a caso è stato pochissimo rappresentato) il regista ha cercato di dargli consistenza. Probabilmente se avesse tentato la cifra del surrealismo o dell’onirico qualcosa ne avrebbe cavato (si è trattato di un brutto sogno frutto inconscio di un senso di colpa). Avrebbe almeno ricalcato filologicamente la carriera di Carrière che, negli anni in cui scrisse la pièce, era impegnato nella sceneggiatura dei film di Luis Buñuel Diario di una cameriera e Bella di giorno. Forse sarebbe riuscito a salvare il tutto se avesse almeno puntato sulla bellezza sconvolgente della sconosciuta che fa perdere il senno (cosa che fece nel 1992 il regista Bernard Murat dirigendo Fanny Ardant nella parte di Suzanne). Invece imposta uno stile recitativo piattamente realista, cercando di dare una connotazione sociologica, involontariamente razzista. E’ un personaggio sciatto e scialbo, che non sa fare niente, nemmeno il caffè, non ha la minima voglia di lavorare, campionessa di pigrizia e di inettitudine, ama solo dormire in un letto di cui si guarda bene dal cambiare le lenzuola. La donna non può essere francese. Una sans papier, una immigrata, una badante, una mantenuta di piccolissimo cabotaggio, una delle tante “fidanzate di convenienza” che sbarcano il lunario con espedienti fuggendo la miseria del loro paese? Non è chiaro. Comunque decide di farla parlare con una cadenza slava, una cantilena fastidiosa che costringe la Ferrari in uno spazio recitativo abbastanza limitato e che non concede nulla alla splendida bellezza che la rese l’indimenticabile Selvaggia dei suoi esordi cinematografici. Fantastichini-Jean-Jacques non abita più qui.

Il dio della carneficina
Riecco il teatro contemporaneo vero, quello che non usa la scrittura scenica come pretesto per gabbare il nulla sotto le mentite spoglie dell’operazione culturale, politicamente corretta. Compare, talvolta, anche dalle nostre parti, al Teatro Chiabrera di Savona. Per ora ci arriva dalla Francia, speriamo che presto, ci possano arrivare testi teatrali di tale livello anche dall’Italia. Parliamo de Il dio della carneficina (Le dieu du carnage), l’ultima pièce di Yasmina Reza. Intendiamoci, non ci troviamo di fronte a nulla di eccezionale, che ci faccia gridare al miracolo, ma “solo” a qualcosa di valido, che ci fa apprezzare lo sforzo di rilanciare una drammaturgia “nuova” e perfettamente costruita, scritta da chi conosce bene il mestiere di drammaturgo e l’innalza ad arte. Abbiamo di fronte un testo ben strutturato, che riesce a far ridere e a far pensare, permettendo di far esprimere gli attori al meglio delle loro capacità.
Si parte da un pretesto semplicissimo, una lite tra ragazzi, uno ha spaccato il labbro dell’altro con un bastone. Si prosegue col tentativo civile di due coppie di genitori, aperte e progressiste, di farli riappacificare, riconducendo il fatto ad un incidente che può anche risultare “utile”, se ben gestito, all’educazione ed alla maturazione dei loro ragazzi. Si finisce nell’esplosione di una quotidiana barbarie interfamigliare, spaccato di una società in cui l’istinto primitivo della sopraffazione, il culto del dio della carneficina, fa giustizia di ogni illusione illuminista che possano trionfare la ragionevolezza, la pacifica convivenza e la tolleranza verso il prossimo.
Ottanta minuti, senza intervallo, non un minuto di calo dell’attenzione, in un crescendo gestito da attori eccellenti, che recitano da grandi professionisti quali sono, senza quelle piaggerie ed ammiccamenti da divi che tirano a strappare l’applauso: Anna Bonaiuto è una madre e moglie che si batte per la pace nel mondo ed il trionfo della bellezza, Alessio Boni è un antipatico spaccone, telefonino-dipendente, un furbetto del quartierino in carriera, Michela Cescon è una moglie che porta avanti una gravidanza tra la remissività e l’angoscia e Silvio Orlando è un uomo dimesso, che gestisce un negozio di sanitari, apparentemente mite ma che presto di trasforma in una belva scatenata.
La regia di Roberto Andò, pulita, nitida, mai sopra le righe, si collocata nella scena di Gianni Carluccio, giustamente equilibrata tra naturalismo ed astrazione, senza stramberie ed effettacci per acchiappare lo stupore dell’ingenuo di turno, che si beve la trovatina inconsueta e grida al miracolo del regista divo. Paga la scelta consapevole di concedere lo spazio che serve agli attori, senza mai lasciarli soli a strafare, utilizzando anche il silenzio come momento eloquente, almeno quanto la parola, sottolineando le differenze caratteriali anche attraverso gli abiti dei personaggi.
La scena si apre con un sottofondo di musica impalpabilmente new age. La scena si chiude con un suono selvaggio di tamburi.

IL DISCORSO DEL RE

Nel grigio sempre più plumbeo della scena italiana appare ogni tanto un pallido raggio di sole. Non viene quasi mai dai lidi nostrani, più spesso è un raggio che parla british. Accontentiamoci. Nel nostro caso la provenienza non è neppure scenica ma cinematografica. Insomma un usato sicuro. Che dire altrimenti del film The King's Speech di Tom Hooper, sceneggiato da David Seidler, vincitore di quattro premi Oscar (su ben 12 nomination avute)? Siamo ormai giunti al paradosso che l’analogico teatrale debba chiedere aiuto al digitale cinematografico. Questa è l‘operazione compiuta da Luca Barbareschi produttore, regista e prim’attore con la sua Casanova Multimedia della riduzione teatrale del film, andata in scena al Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona, nell’ambito di una stagione artistica dello stesso colore del governo tecnico Monti (ognuno scelga il suo). Ri-accontentiamoci.

Lo spettacolo fortunatamente non annoia (ed oggi come oggi non è poco, credetemi), ma c’è un limite strutturale all’operazione. Per quanti sforzi macchinistici compia la vorticosa scena di Massimiliano Nocente, il teatro, potendo contare solo relativamente sull’effettistica visiva (rispetto al grande schermo) vive principalmente di colpi di scena.
Qui, come la giriamo giriamo, questi coup de theatre mancano. La storia è nota, pacata, lineare, natura non facit saltus. Pare quindi di assistere al lento snocciolarsi di un deja vu. Il futuro re Giorgio VI (un eccellente Filippo Dini) balbuziente, dovendo pronunciare il discorso dell’entrata in guerra contro Hitler, riesce nella difficile impresa grazie all’aiuto di un ex attore logopedista autodidatta Lionel Logue (un eccessivamente caricaturale Luca Barbareschi), col quale stringerà un legame di complicità e amicizia.
Il cast regge la scena, anche se non dà una prova di sé indimenticabile (specie nella sezione femminile), li citiamo per dovere di cronaca: Ruggero Cara (Winston Churchill), Chiara Claudi (Myrtle Logue), Roberto Mantovani (Cosmo Lang - Arcivescovo di Canterbury), Astrid Meloni (Elizabeth - Duchessa di York), Giancarlo Previati (Re Giorgio V e Stanley Baldwin - Primo Ministro), Mauro Santopietro (David - Principe di Galles).
Insomma sine infamia sine laude. Ma un momento almeno mi ha strappato un sorriso ed un applauso: la battuta folgorante di Winston Churchill (Ruggero Cara) all'Arcivescovo di Canterbury (Roberto Mantovani): "Vabbè, sei stato eletto da Dio. Ma con un voto solo".
Certo è una sola battuta, ed anche il copyright è incerto, ma ri-ri-accontentiamoci.

LAURETTE DE PANAME
È sempre un piacere tornare ogni estate sulla magica piazzetta di Verezzi per assaporare i profumi dell’antico borgo che sa di rosmarino, salsedine, teatro ed almeno un millennio di storia. A darcene l’occasione è la 49° Edizione del Festival Teatrale più importante della Liguria che, sotto la direzione di Stefano Delfino, ci propone quest’anno un omaggio alla Francia ed alla sua cultura. Ci piace molto il taglio dato (dieci spettacoli e ben otto prime nazionali) e la capacità di fare rete, oltre che con i corregionali PercFest di Laigueglia e Festival di Musica da Camera di Cervo, anche con il Plautus Festival di Sarsina (provincia di FC Forlì-Cesena). La strada è quella giusta.
Ma quest’anno la sorpresa è stata ancora maggiore poiché lo spettacolo di apertura non rientrava nei canoni “tradizionali” e meno che mai in quelli di una certa pruderie. Honni soit qui mal y pense.
Almeno per un attimo il pubblico in sala si è trasformato in quello di un celebre ballo alla corte inglese del 1349, dove il primo cittadino era Edoardo III, Giovanna di Kent era Laure Bontaz, e l’increscioso incidente (incidente?) un po’ cochon si risolse diplomaticamente con la fondazione dell’Ordine della Giarrettiera. Cosa c’entra? Accidenti se c’entra. La giarrettiera naturalmente.
Detta così non fa figura, ma indossata da Laurette de Paname vi assicuro che è un belvedere da fare concorrenza a quello mitico sul mare. Visto che siamo in un mensile diocesano, non vado oltre. Preferisco intraprendere la strada di “siamo donne oltre le gambe c’è di più” che quella di “saran belli gli occhi neri saran belli gli occhi blu ma le gambe ma le gambe a noi piacciono di più”.
Quindi parlerò dell’intelligenza della protagonista, del giusto limite del buon gusto mai travalicato, della raffinatezza della scelta delle canzoni dello spettacolo, della splendida voce, della grande abilità      nell’interpretare tante figure di donne francesi, una per quartiere parigino, una per epoca, delle notevoli doti di ballerina, degli splendidi costumi cambiati a vista (quasi tutti, il fondale del palco è pur sempre una chiesa) con l’abilità di un Fregoli in gonnella, della grande capacità di intrattenere e coinvolgere il pubblico. Paname è il nome informale di Parigi. I personaggi-donne-quartieri spaziano dalla rive gauche alla rive droite, secondo il dotto detto “sur la rive gauche on pense et sur la rive droite on dépense”. Ed ecco scorrere sotto i nostri occhi le immagini della Ville Lumière, da Saint-Germain-des-Prés a Montmartre, da Montparnasse a Pigalle, da Bastille a Belleville, evocati dalle canzoni rese celebri da Yvette Guilbert, da Edith Piaf, da Joséphine Baker, da Maurice Chevalier.
Tutto magnifico; d’altronde Laure Bontaz viene da lontano, con un background di tutto rispetto che affonda le sue radici in spettacoli di cabaret curati dal grande regista Jérôme Savary, il creatore dell’indimenticato Grand Magic Circus. Un’ora di spettacolo piena e divertente, tra risate, doppi sensi, charme, plumes & paillettes e tanto… Coty.

LE BAL

Le Bal, è un format francese di Jean Claude Penchenat, attore e regista nizzardo cofondatore nel 1964 del celeberrimo Théâtre du Soleil con Ariane Mnouchkine, e nel 1975 del Théâtre du Campagnol. A lui Ettore Scola si ispirò per il film “Ballando Ballando” del 1983. La nuova versione italiana, prodotta da L’isola trovata - Viola Produzioni, con la regia di Giancarlo Fares, ha aperto la 51^ Edizione del Festival Teatrale di Borgio Verezzi. Attraverso la danza, viene narrata la storia d’Italia dal 1940 al 2001. Tutto è lasciato alla musica, al ballo, alle capacità espressive e alla forza comunicativa dei protagonisti, un racconto che non è fatto di voci, ma di suoni, musica, gesti e movimenti del corpo che sono in grado di rappresentare gli eventi e le loro ripercussioni emozionali. Dallo scoppio della seconda guerra mondiale fino al crollo delle torri gemelle, sedici attori e attrici ci fanno ripercorrere la storia, attraverso gli eventi più tragici e quelli più felici, facendo rivivere le mode delle varie epoche attraverso le canzoni che hanno interpretato la vita e i costumi della società nei loro mutamenti.Tutto accade in una balera, piena di gente di varia estrazione, che vuole ballare, sognare e innamorarsi. C’è lo snob, l’elegante, la vamp, la sciocca, la lolita, l’irreprensibile, il vitellone, l’impacciato, la romantica. Scoppia la guerra, bombardamenti, dolore e disperazione. Ma arrivano gli americani, che portano la libertà e un po’ del loro mondo. Balli nuovi, mai visti prima, il tip tap, il rock, il twist. E siamo già ai ’60 e ’70, i primi movimenti femministi, l’emancipazione, il benessere. La gente si diverte, prima molto poi sempre meno. Gli anni ’90, meno voglia di stare insieme, si balla la techno, la musica è aggressiva, sparata a tutto volume nelle cuffie. È l’isolamento, sempre di più fino a che il mondo viene sconvolto dal crollo delle torri gemelle. La realtà si frantuma in migliaia di pezzi che non torneranno mai più insieme. Le Bal è uno spettacolo divertente, poetico ed elegante dove è la musica stessa a farsi drammaturgia. La regia di Giancarlo Fares, con le coreografie di Ilaria Amaldi, le scenografie di Marco Lauria ed i costumi di Francesca Grossi, unisce con dinamismo, leggerezza e un tocco di raffinatezza quadri intensi e simbolici. Ne Le bal vorticosamente danzano 8 coppie: Giancarlo Fares, Sara Valerio, Alessandra Allegrini, Riccardo Averaimo, Alberta Cipriani, Vittoria Galli, Alice Iacono, Matteo Lucchini, Fancesco Mastroianni, Davide Mattei, Matteo Milani, Pierfrancesco Perrucci, Maya Quattrini, Michele Savoia, Patrizia Scilla, Viviana Simone. Applausi.

L’ultimo degli amanti focosi
Coprodotto dalla Società Cooperativa Teatro Artigiano a.r.l. e dal Festival Teatrale di Borgio Verezzi, L’ultimo degli amanti focosi di Neil Simon è l’ennesimo capolavoro tragicomico, uscito da una penna fertile talmente fluida e pirotecnica nell’esplosione continua delle battute fulminanti, da far apparire apparentemente facile e leggera la materia trattata, quando invece essa è di ben altro spessore e complessità. Opera “minore” del genio newyorkese della risata, cantore sensibilissimo della apparente banalità esistenziale della middle-class americana, l’italianizzazione fattane dalla regia di Silvio Giordani, coadiuvato dall’aiuto regia di Annamaria Papalia, regge benissimo alla prova scenica, a riprova, se ce ne fosse stato ancora bisogno, della universalità dei temi trattati e della sua capacità di risultare pienamente credibile ad ogni latitudine.

Andato in scena nella incantevole Piazzetta Sant’Agostino di Verezzi con l’interpretazione magistrale di Pietro Longhi (che interpreta Bernardo) e di una scatenatissima e poliedrica Paola Quattrini (che interpreta ben tre ruoli differenti, Emma, Roberta e Giannina), lo spettacolo si avvale delle belle scene moderatamente decostruttiviste di Mario Amodio, degli eleganti costumi di Lucia Mariani e del misurato disegno luci di Sasha Doninelli.
La storia, veramente elementare, racconta tre tentate (e disastrose) evasioni amorose di Bernardo, proprietario di un ristorantino ben avviato, sposato da vent’anni e padre di cinque figli. Tre disavventure diversissime, una per ogni tipologia di donna che incontra: la libertina (da cui vorrebbe inutilmente un briciolo di poesia amorosa), la depressa (da cui vorrebbe un’impossibile passione travolgente), la starlette (da cui vorrebbe un minimo di spessore umano).
Il nostro piccolo eroe è patetico nei suoi slanci amorosi alla ricerca di una accettabile sostituta (almeno per una volta) dell’alter ego muliebre. Cosa vuole provare a se stesso con questa avventura che probabilmente lui stesso non desidera fino in fondo? La sua intatta virilità, l’appeal del suo fascino, l’attrattiva della sua solida posizione sociale? Forse nessuna delle tre cose o tutte e tre insieme. Probabilmente Bernardo vuole dimostrare a se stesso di essere ancora “vivo”, fuori della routine quotidiana che sembra imprigionarlo, ma che in fondo lui ama. Come ama profondamente la moglie, che si presterà al gioco di essere la donna della sua quarta avventura, quella “perfetta” e finalmente riuscita.
Metafora delle nostre insicurezze, la pièce di Neil Simon è drammaturgicamente un preciso meccanismo ad orologeria, una splendida mano di carte che offre agli attori moltissime opportunità di fare un grande gioco con il pubblico e che Longhi e Quattrini, in splendida forma, non mancano puntualmente di cogliere.

Momix Remix

Lo spettacolo Momix Remix, in programmazione presso il Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona, festeggia il 30° anniversario della fondazione dei Momix, nome che deriva dal titolo di un assolo presentato ai Giochi Olimpici invernali di Lake Placid nel 1980, da Moses Pendleton, al tempo membro dei Pilobolus Dance Theatre, che gioca sulla fusione delle due parole Moses e Mixer. La compagnia americana, formata da ballerini-illusionisti, è famosa in tutto il mondo per la straordinaria capacità di utilizzare il corpo per creare immagini surreali. Sotto la guida del suo geniale fondatore, in collaborazione con la consorte Cynthia Quinn, codirettore artistico, lo spettacolo ripropone una caleidoscopica compilation dei pezzi più suggestivi della loro carriera, nei quali, facendo interagire corpi umani, costumi, attrezzi e giochi di luce, aleggiano magia, virtuosismi ginnici ed invenzioni fantasiose.

Il programma della serata prevedeva:

Da Passion, Geese (1992) con la colonna sonora di Peter Gabriel da L’ultima tentazione di Cristo, un film di Martin Scorsese.

Da Opus Cactus (2001) Dream Catcher con la musica Mountain Walk East di Nomad e Pole Dance con la musica The Hunt di Adam Plack & Johnny Sames.

Da Momix Classics (2003) Tuu con la musica One Thousand Years di Tuu e Table Talk con la musica Safe From Harm di R. Del Naja, A. Vowles, G. Marshall.

Da Sun Flower Moon (2005) Moon Beams con la musica Waken di Kevin Dooley.

Da Supermomix (2007) Sputnik con la musica Diamante di Brenda Perry e Lisa Gerard.

Da Bothanica (2009) Aqua Flora con la musica Moola Mantra; Marigolds con la musica Destinations di Suphala Solar Flares con la musica Mr. Mahalo Head di Brent Lewis.

Infine le nuove creazioni Baths of Caracalla con la musica Reverence di David e Steve Gordon; If you need somebody con la musica di Johann Sebastian Bach e Duets con la musica Wonderland di Warp Technique.

Cosa possiamo dire davanti a tale perfezione? Che ancora una volta si rinnova lo stupore ammirato che questo poeta del gesto e della suggestione è capace di suscitare in noi grazie alle sue invenzioni stupefacenti, dove trionfano una fusione perfetta di luci, suoni, costumi, attrezzi e corpi. Ma davanti all’apparente semplicità e naturalezza dell’esecuzione, che la rende di incredibile fluidità, non possiamo non ammirare lo straordinario lavoro di affiatamento di un gruppo formato dai ginnasti-danzatori Samuel Beckman, David Dillow, Yasmine Lee, Nicole Loizides, Heather Magee, Steven Marshall, Rebecca Rasmussen, Paula Rivera, Brian Simerson, Jared Wootan, dai direttori tecnici Gianni Melis, Fabrizio Pezzotti, Corrado Verini, dai costumisti Phoebe Katzin, Moses Pendleton, Cynthia Quinn, dalle sculture ed attrezzi di Alan Boeding, Marty Ponte e dalle luci di Howell Binkley, Moses Pendleton, Joshua Starbuck.
Concludiamo con una citazione per gli appassionati cinefili: tra le numerosissime realizzazioni di Moses Pendleton ricordiamo la coreografia di Batdance per il film Batman con musica di Prince.

Non mi hai più detto ti amo
Non mi hai più detto ti amo
Le tavole del palcoscenico di Borgio Verezzi sono ancora una volta l’apripista della scena italiana. Ciò che di nuovo bolle in pentola… qui per primi lo si assaggia. Ed è una vera scorpacciata di gustoso teatro quella che abbiamo fatto con “Non mi hai più detto ti amo”, una commedia inedita di Gabriele Pignotta, che ne firma anche la regia, prodotta da Milleluci Entertainment. Questa, come tante altre sue pièce approdate sul grande schermo (Ti sposo ma non troppo, Sotto una buona stella, Un Natale stupefacente), è scritta con un taglio cinematografico ed un tocco leggero. É una pièce cucita addosso a due mattatori come Lorella Cuccarini e Giampiero Ingrassia, istrionici e straordinariamente affiatati, che magistralmente la interpretano ben assecondati da Raffaella Camarda, Francesco Maria Conti e Fabrizio Corucci. Sulle godibili musiche di Giovanni Caccamo, nelle splendide e sontuose scene di Alessandro Chiti. Più che la parola in scena, regna il non detto. Quello che le famiglie non si dicono, ovvero la famiglia ai tempi di what’s app, servita con le sue fragilità e con la sua forza. Se ne parla con una leggerezza appassionata, sbirciando attraverso la quotidianità e l’eccezionalità. Alla routine segue la crisi dei coniugi, un cambiamento traumatico generato da un crescente nulla che si gonfia a dismisura fino a scoppiare. L’esplosione fa male ma alla fine di un percorso umano difficile ed intenso, completamente trasformati riusciranno a sopravvivere, non “come”, ma certo “meglio” di prima. Lorella è Serena una super-mamma e moglie perfetta che regge tutta l’organizzazione della famiglia, fino a che comprende che questo ruolo non è più funzionale alla sua felicità e decide di recuperare il suo essere donna rimettendo in discussione tutti gli equilibri. Giampiero è Giulio il marito e genitore assente – presente, inizialmente destabilizzato da questo cambiamento, ma che troverà la forza di reagire, riscoprendo finalmente il suo ruolo centrale da tempo delegato alla moglie. Raffaella è Tiziana e Francesco è Matteo, i due figli, due ragazzi di vent’anni, che andranno in crisi, ma che riusciranno a trovare dentro di sé delle risorse interiori inaspettate che porteranno la famiglia a ricomporsi. La strada per una nuova drammaturgia italiana è ancora lunga e faticosa, ma questo è certamente uno dei primi passi nella direzione giusta. Applausi.

Quattro sorelle

Quattro sorelle, con storie e personalità molto differenti, si ritrovano nella casa di famiglia in occasione dell’improvvisa morte della madre (Lisa Gastoni). Sembrerebbe trattarsi di un suicidio, ma il finale a sorpresa ci condurrà alla scoperta di un’altra situazione parimenti drammatica, di forte attualità: un caso di eutanasia. La prima figlia è Austin (Rosalinda Celentano), scrittrice affermata che vive ancora a casa con la madre, è una scrittrice di successo che incontriamo in un periodo di riposo. Poi c’è Caroline (Antonella Attili) una donna tesa, intelligente, ricca e infelice, quindi Dallas (Selvaggia Quattrini) la sorella "normale" ed infine Baltimora (Eugenia Costantini) la più giovane, ancora studentessa. Sono accomunate dall’esperienza di vita con una madre molto “ingombrante”, a cui ognuna di loro ha differentemente risposto, chi avvicinandosi ancora di più, chi allontanandosi in maniera più marcata, quasi a rappresentare una casistica emblematica della difficoltà delle relazioni familiari, specie fra madre e figlia. Questa e niente di più è la storia di Quatto sorelle, la bella pièce di Colette Freedman (grande successo di due stagioni fa a Broadway), che affronta il tema con amara ironia mista ad un linguaggio a volte un po’ crudo. Ma questo “poco” è già moltissimo. Ci troviamo di fronte ad una tragedia malinconica e commovente, ma allo stesso tempo tenera e perfino buffa, in linea con la tradizione del grande teatro di parola americano. Infatti la forza di questo testo sta nella piena padronanza di un mestiere drammaturgico gestito con un crescendo di dialogo abilissimo, che chiede agli attori un’adesione non mediata di tipo paranaturalitico. Un mestiere drammaturgico di cui la scena italiana ci ha lasciato da troppo tempo quasi completamente orfani. Date queste premesse, il resto viene a cascata. Il lavoro di verità che il regista Enrico Maria Lamanna ha richiesto agli attori sembra quasi ovvio. Le scene di Chiara Paramatti, i costumi di Teresa Acone, il disegno delle luci di Stefano Pirandello, sembrano quasi inevitabili. Come avrebbero potuto essere diversi? Grande scuola teatrale questa a cui si sono abbeverati l’aiuto regista Barbara Marzoli e le assistenti alla regia Jacopo Bezzi e Maria Luisa Catalano. Grande il merito della coproduzione Mythos Group - Festival Teatrale di Borgio Verezzi di avere mirato su un testo così rischioso, specie per un programmazione estiva, che di solito si immagina leggera e spensierata. Unico piccolo neo della serata l’interpretazione della Celentano che, mentre possiede senza dubbio le fisique du rôle adatto al personaggio che interpreta, ci è apparsa ancora recitativamente incerta e un poco monocorde nelle sfumature verbali che la sua complessa parte richiede. Molto bene il resto del cast, in cui spicca il prezioso cammeo di Lisa Gastoni, grande attrice di razza.



NON SI UCCIDONO COSI' ANCHE I CAVALLI?

Dopo la magnifica performance di “Squalificati” di Pere Riera, una sorta di “A porte chiuse” di sartriana memoria, ambientata nelle tematiche e nei media dei giorni nostri, chiude alla grande il Festival di Borgio Verezzi con il migliore spettacolo della stagione: “Non si uccidono così anche i cavalli?”, tratto dall’omonimo romanzo di Horace McCoy (They Shoot Horses, Don’t They?) del 1935, nella traduzione di Giorgio Mariuzzo con l’adattamento di teatrodanzato di Giancarlo Fares, che ne firma anche la regia. Portato già sugli schermi nel 1969 dal grande Sydney Pollack fu un successo di critica e pubblico, Festival di Cannes ed Oscar compresi. Nella California dei primi anni ‘30, è in voga un genere crudele di spettacolo: maratone di ballo durante le quali coppie di giovani disperati senza lavoro ballano per giorni interi, attratti dal premio in denaro a chi resisterà di più, dalla possibilità di farsi notare da qualche produttore cinematografico e teatrale, dal vitto e l’alloggio assicurati per qualche tempo. Sulla pista da ballo, idealmente circondati dagli spettatori venuti per seguire la maratona, 14 performer e un quartetto di musicisti, con frontman il cantautore Pierluigi Siciliani, in arte Piji (che firma alcune stupende canzoni originali che meriterebbero di sopravvivere allo spettacolo), si esibiscono insieme in uno spettacolo corale, in cui i corpi, con la loro fatica, la loro sofferenza, la loro verità sono la scena. Guida tutto e tutti, maratona e destini il presentatore, figura carismatica, demiurgo e giudice, qui interpretato da Giuseppe Zeno, il bel tenebroso della fiction televisiva (Il Paradiso delle Signore, Tutto può succedere, ecc.) a cui fa da contrappunto la voce di una concorrente, interpretata da Sara Valerio. Storia tragicamente vera, di un tempo andato. Ma è poi davvero così differente da oggi? Dai rave party matti e disperatissimi, dai casting del grande fratello non più orwelliano ma berlusconiano, dai selfie fotografici ininterrotti instagrammiani alla chiarafferragni sui social media alla ricerca di un followers in più, alle fake news sensazionali nella speranza che il proprio account sia sommerso di like e di pubblicità a pagamento, ai giochi proibiti in cui si rischia la vita propria e degli altri (oltre la galera), per qualche visualizzazione in più? “Ecco come la salutiamo la depressione! Dateci sotto gente, diamo il via alle danze!” Grida il presentatore di allora. “Diventa un youtuber, un blogger, un trasgressore professionista e diventerai famoso e ricco come un fabriziocorona!” Grida la sirena virtuale del bigdata odierno. Non si uccidono così anche i nostri ragazzi?

Se devi dire una bugia dilla ancora più grossa

Se c’è un luogo comune da sfatare è quello che l’umorismo inglese possa al massimo smuovere un compito sorriso, magari solo mezzo labbro. La prova migliore della falsità di ciò è la pièce di Raymond George Alfred Cooney detto Ray (londinese purosangue classe 1936) intitolata Se devi dire una bugia dilla ancora più grossa andata in scena con la Produzione Artù (coproduzione Ente Teatro Cronaca) nella stagione di prosa del Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona: 125 minuti di risate irresistibili. Le risate sono sempre state viste artisticamente con sospetto. Il teatro vero, quello immortale, è quello serio e tragico. Un falso, anche se c’è chi crede ancora che i premi importanti di teatro vengano assegnati solo a pièce impegnate farcite di profondissime tesi filosofico - sociali (magari un poco cervellotiche, con tirate da vecchi tromboni, sorta di Soloni del quartierino ai limiti della sopportabilità umana). Infatti questa pièce vanta la conquista del prestigioso premio Lawrence Olivier come miglior commedia dell’anno a Londra. E’ pure inesatto che il materiale contenutistico della pochade (il cui plot sono le corna) sia solo un tema da cinepanettoni, b-movie buoni per volgari risate fatte di pancia colmi di parolacce, rutti e peti. Tanto è vero che in questa storia di tradimenti e di indegnità di politici immorali si ride tanto, ma con gusto e con intelligenza. Non regge neppure la tesi che il sequel di un successo sia solo lo sfruttamento commerciale bieco di una idea fortunata, dove si rabberciano soluzioni alla buona fatte per spremere danari da una struttura già consolidata. Guarda caso questa pièce è il seguito ideale di Se devi dire una bugia dilla grossa dello stesso autore, portata al successo in Italia trent’anni fa da Johnny Dorelli. Che dire poi del rancoroso andante della raccomandazione? I figli dei divi sono degli inetti, che lavorano solo grazie alle spintarelle di papà, in barba ad ogni meritocrazia, facendosi un nome avendo dalla loro già un cognome. Qui il bravissimo regista è Gianluca Guidi incidentalmente figlio d’arte di Dorelli e Masiero (un bell’incidente, intendiamoci), capace di dettare i ritmi giusti per scatenare la vis comica della troupe. Non è neppure sostenibile la critica che il successo della farsa è dovuto alla bocca buona del provincialissimo pubblico italiano, mitridatizzato da anni di grevi sottoprodotti televisivi di intrattenimento (e qui dacci contro il berlusconismo che è entrato nel nostro DNA). Piace ricordare che il successo della pièce è europeo. Si guardi i cartelloni di Parigi (che rititola Panique au Plaza) e di Madrid (dove diventa Politicamente Incorrecto). Insomma un grande spettacolo ed un grande successo di pubblico. Meritato da un cast di ottimo mestiere: Antonio Catania (il politico), Gianluca Ramazzotti (il fedele portaborse), Miriam Mesturino (amante dell’onorevole, ma membro dell’ufficio stampa dell’opposizione), Ninì Salerno “ex Gatto del Vicolo dei Miracoli” (il direttore dell’albergo), Licinia Lentini (la moglie dell’onorevole) e Raffaele Pisu (avidissimo cameriere che approfittata di ogni occasione per lucrare mance) padre nobile dello spettacolo leggero italiano. Trama non facilmente riassumibile per i continui colpi di scena, commedia degli equivoci centrata su di una mancata notte di passione. Nell’elegante stanza dell’hotel Plaza, l’erotismo lascia il posto alla scoperta del cadavere di un uomo che spiava dall’esterno che è morto ghigliottinato dalla finestra a saliscendi. Quali possono essere le conseguenze coniugali e politiche? Terribili. Che fare? Si chiama il fido segretario Girini, magari non troppo disinvolto, però fedele. Quel che segue è una pirotecnica cascata di menzogne, di identità false e multiple, di inopportune aperture di porte, di arrivi intempestivi, di resurrezioni, di ri-morti. Risate e applausi a cascata. Quando potremo riassistere a qualcosa di questo genere e livello?

The country

Laura Morante, nipote della celebre scrittrice Elsa Morante, ha lavorato nel cinema con numerosi registi Giuseppe e Bernardo Bertolucci, Gianni Amelio, Alain Resnais, Nanni Moretti (per il quale è stata una indimenticabile Bianca) che l’hanno resa una star di levatura internazionale. Era intrigante vederla ritornare in teatro, dopo molti anni dal suo debutto, avvenuto nientemeno che con il leggendario Carmelo Bene. Ha avuto l’audacia di farlo con uno spettacolo inconsueto (almeno per l’Italia), The country, testo tra i meno rappresentati del drammaturgo inglese Martin Crimp, un indefesso sperimentatore di linguaggi, interessato più alla forma teatrale, alla struttura della pièce che alla storia che narra.
La non-storia d’amore tra un uomo e una donna si svolge in una casa di campagna e parte dall’antefatto inquietante di Richard che ha trovato una giovane donna svenuta per strada e l’ha portata in casa. Corinne pensa che lui la conosca già e passo dopo passo, si scopre che la coppia è da tempo ostaggio di un altro ospite parimenti inquietante. Insomma: menzogne, inesplicabili sottomissioni, torbide attrazioni, attesa di una redenzione che non arriva.
Punti caratterizzanti dello stile della pièce sono un dialogo asciutto, un tono di distacco emotivo che ben inquadra una visione desolante dei rapporti umani. Da alcuni Crimp è stato visto come un esponente dell’in-yer-face theatre, un termine gergale vagamente traducibile come il teatro di alla faccia tua, tie’!, espressione coniata dal critico teatrale inglese Aleks Sierz, per definire un gruppo di giovani drammaturghi (tanto per cambiare arrabbiati), emersi verso la fine degli anni ’90, che presentano materiale volgare, scioccante, come un mezzo per coinvolgere emotivamente il loro pubblico. Evidentemente tutto il mondo è paese, quando si teme di confermare il noto andante: “il teatro è ormai diventato il tipo di spettacolo più soporifero” (dopo la televisione, aggiungo io). Figlio legittimo della generazione definita dei Bambini – Thatcher, vale a dire di una precisa epoca in cui la sinistra era stata frantumata dalla politica ultraconservatrice dell’iron-lady, le unghiate di Crimp appaiono oggi, dopo l’era di Tony Blair e Gordon Brown, un poco, come possiamo dire, “graffi datati”. E’ vero che oggi regna Cameron (un conservatore di sinistra), ma soprattutto, c’è una crisi planetaria di proporzioni tali che qualsiasi proiettile letterario le viene sparato contro, rimbalza come se sbattesse su un gigantesco muro di gomma, ritornando con intatta forza e sberleffi al mittente.
La regia di Roberto Andò e l’interpretazione, oltre che della Morante, di Gigio Alberti e Stefania Ugomari Di Blas, sono di buon livello. Ma sopra ogni cosa voglio sottolineare l’inconsueta produzione dello spettacolo. Infatti, accanto al Teatro Stabile dell’Umbria, troviamo Brunello Cucinelli, il noto stilista-produttore "re del cachemire" che ha voluto il debutto dello spettacolo nel suo teatro di corte a Solomeo, il borgo dei colli perugini da lui ristrutturato secondo principi neoumanistici, dove vive ed opera il suo fedele popolo di sudditi tessitori che, se da un lato fa tanto rinascimento, dall’altro l’ha reso miliardario.
Un segno dei tempi che va sottolineato, il teatro pubblico dell’era Monti recita la pièce più antica del mondo: “bambole non c’è un euro, avanti i mecenati”.

THE HISTORY BOYS
Nato vent’anni fa dalla unione del Teatro dell’Elfo e dal Teatro di Porta Romana, Teatridithalia è un progetto scenico che ha dato tanto alla scena italiana, contribuendo in maniera consistente al suo svecchiamento. Teatro di attori e di regia guidato dai dioscuri della scena italiana, Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, (il tertium…datur è il Premio Oscar Gabriele Salvatores), ha maturato uno stile che è diventato, nel corso degli anni, riconoscibilissimo, viaggiando su tre direttrici principali: il lindore neo-brechtiano, il trash ed il furore elisabettiano. 
The History Boys andato in scena colla produzione di Teatridithalia, presso il Teatro Comunale Chiabrera di Savona, nella speciale sezione denominata Teatro Giovani, è un mix delle prime due tendenze (neo-brechtiano e trash) mentre Il Racconto d’inverno, andato in scena nella sezione maggiore, è un mix della prima e della terza tendenza (neo-brechtiano e furore elisabettiano). 
The History Boys è una commedia teatrale di Alan Bennett, vincitrice nel 2004 di ben 6 Tony Award (gli Oscar del teatro), e che ha avuto una trasposizione cinematografica nel 2006 (nomination ai BAFTA British Academy of Film and Television Arts, e al British Independent Film Awards) con la regia di Nicholas Hytner, mantenendo regista e cast originari (una versatilità, così rara in Italia) ed ottenendo un incasso mondiale di oltre 12 milioni di dollari (un vero record per un film a bassissimo costo). Non si è trattato di un caso isolato, infatti The History Boys ha bissando il successo che la coppia aveva già avuto per la trasposizione cinematografica di un'altra loro celebre pièce, The Madness of King George III, del 1991, diventata nel 1995 il film La pazzia di re Giorgio. 
La storia narrata da Alan Bennett é in gran parte autobiografica, fatta di ingredienti che conosce molto bene e sa dosare a dovere. E’ quella di otto ragazzi di provincia che si preparano per sostenere (con successo) gli esami per essere ammessi ad Oxbridge (un termine gergale inglese nato dalla crasi di Università di Oxford e di Cambridge, come dire il top dell’Università inglese e planetaria). Nei vari personaggi rivivono varie vicende dell’esistenza dell’autore, segnandone un impressionante parallelismo. Le umili origini, la provincia, una borsa di studio ad Oxford presso l’Exeter College, la laurea, l’insegnamento di storia, l’abbandono del mondo accademico per dedicarsi al teatro, prima come attore, poi come regista e commediografo. 
Su una scena che rivive l’impostazione più rigorosa del teatro epico brechtiano (attori in vista in scena anche quando non recitano, musiche suonate dai protagonisti stessi, scena in un unico ambiente con cambi minimi funzionali a vista riutilizzando però gli stessi arredi, ecc.), tracima la componente trash omosessuale del testo, di sapore fortemente fassbinderiano (a mio avviso però la meno interessante). Di ben altro spessore ed interesse è tutto il resto del vissuto. Sono a confronto tre linee di insegnamento: quella di Mrs Lintott (Storia), basata sul fornire solide basi culturali, quella di Hector (General Studies), che punta tutto sull’animazione teatral-didattica per cercare il senso della conoscenza al di là dell'erudizione ed infine quella di Irwin, chiamato a fine anno perché dia agli allievi lo stile giusto per avere successo all'esame: trascurare l’oggettività dei fatti a favore di una interpretazione il più possibile originale. 
Ognuna delle tre linee, prese isolatamente, porterebbe al fallimento, solo la loro complementarietà può avere una chance di successo. Ed i ragazzi, che come giovani ed avide spugne sanno rubare il buono dove c’è, saranno tutti ammessi. 
Ben diversa la sorte dei docenti, in buona parte speculare al loro modo di concepire l’insegnamento e la vita. La concreta e metodica Mrs Lincott invecchierà diventando l’attenta cronista di provincia delle future carriere dei ragazzi; lo stralunato, eccentrico e vanesio Hector sarà vittima di un incidente stradale mortale, lo spregiudicato Irwin lascerà invece l'insegnamento per il giornalismo televisivo. 
Un testo splendido e vero che sa parlare di scuola (e di vita) al di là di ogni retorica, magistralmente messo in scena (Premio Ubu 2011 come Miglior Spettacolo dell'anno) da Ferdinando Bruni e Elio De Capitani (che interpreta Hector), con Ida Marinelli, una splendida Mrs Lintott (Premio per Miglior Attrice non protagonista), Gabriele Calindri il ruvido ed ambizioso preside, Marco Cacciola un introverso Irwin, e gli otto ragazzi Giuseppe Amato, Marco Bonadei, Angelo Di Genio, Loris Fabiani, Andrea Germani, Andrea Macchi, Alessandro Rugnone, Vincenzo Zampa (meritatissimi, Premio Nuovo attore under 30). A tutti loro un grazie per la magnifica serata di teatro che hanno saputo regalarci.

UN ISPETTORE IN CASA BIRLING

E’ stato un sano piacere teatrale quello provato dagli spettatori che hanno assistito alla pièce, del 1946, Un ispettore in casa Birling (An Inspector Call, nell’originale), grande connubio fra thriller e dramma borghese, dell’inglese John Boynton Priestley, andato in scena a metà dicembre 2010 presso il Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona, nell’allestimento della Compagnia Bis Tremila, con un grande ottuagenario, proverbiale per la sua raffinatezza recitativa, Paolo Ferrari, un signore della scena italiana come Andrea Giordana, la lucida ed ironica regia di Giancarlo Sepe nella vivace traduzione di Giovanni Lombardo Radice. Nella sua lunga carriera artistica Priestley, scomparso nel 1984, è stato saggista e romanziere, ma soprattutto autore drammatico, con una ricca ed eterogenea produzione teatrale (ben quarantanove pièce), dalla commedia leggera a sfondo sociale, alla farsa politica in chiave metaforica, fino al dialogo filosofico. Solitamente classificati Time Plays, il maggior numero dei suoi drammi parte dalle convenzioni naturaliste ma approda, attraverso un ribaltamento, ad un aperto simbolismo. Narrare la trama è il miglior modo per sottolineare questa caratteristica che rende Prietsley straordinariamente attuale ed ancora oggi molto rappresentato. Siamo in Inghilterra, verso il 1930, e la famiglia Birling, composta da Arthur (Andrea Giordana), la moglie Sybil (Crescenza Guarnirei), i figli Sheila (Cristina Spina) ed Eric (Mario Toccafondi), festeggia il fidanzamento della giovane con Gerald Croft (Vito Di Bella), figlio di un ricco industriale. Inaspettatamente, a fine cena, arriva l'ispettore di polizia Goole (Paolo Ferrari) che indaga sul suicidio della giovane Eva. Le domande del poliziotto non cercano in apparenza risposte (che pare lui già conosca), ma mirano piuttosto a favorire le “confessioni” dei presenti. Infatti tutti hanno qualcosa da nascondere e la verità viene a galla. Arthur ha licenziato due anni prima Eva perché aveva chiesto un aumento, Sheila le ha fatto perdere un altro posto di lavoro, Eva ha avuto una relazione con Croft e con Eric, da cui aspetta un figlio ed è stata scacciata da Sybil, presidentessa di un'associazione che dovrebbe aiutare le donne in difficoltà. Tutti sono colpevoli quindi? Moralmente sì… ma… Qui scatta il primo ribaltamento, dal naturalismo al simbolismo, poiché Arthur cercando di contenere i danni per la sua famiglia, prende informazioni sull’ispettore. Quello che lui scopre ha del sensazionale. L'ispettore Goole non esiste. Nella polizia locale nessuno lo conosce e soprattutto nessuna donna è morta suicida. Ma allora, che senso ha quella visita? E’ tutto un grottesco scherzo? Il pericolo, in apparenza, sembra scampato, ma, in realtà, qualcosa di più profondo si è manifestato, tanto da far apparire il danno irreversibile. Anche se quell'ispettore nella realtà, propriamente, non esiste, un ispettore ben più inflessibile adesso li accusa, la propria coscienza, che non può più essere messa a tacere con diplomatiche conoscenze sociali ed apparenti rispettabilità di facciata, le loro colpe rimangono. Per attutire il rimorso comincia allora, da parte di alcuni membri della famiglia, una lenta operazione di autoassoluzione. E qui scatta il secondo ribaltamento, dal simbolismo al naturalismo. Squilla il telefono. Il senso della telefonata è chiarissimo: una donna è morta suicida, lasciando un diario nel quale sono contenute tutte le informazioni che erano in possesso del sedicente “ispettore” Goole ed un ispettore, questa volta terribilmente reale, sta arrivando davvero.

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