ALICE
Il 45° FESTIVAL DI BORGIO VEREZZI apre con il botto, con uno spettacolo di alto profilo, Alice, che il regista Matteo Tarasco (che già nel festival dello scorso anno avevamo apprezzato in una regia goldoniana molto sui generis quella de Il Burbero Benefico con Mariano Rigillo) ha tratto dal capolavoro di Lewis Carrol, assecondato con dedizione rara da un poker attoriale composto da Romina Mondello (Alice), Salvatore Rancatore (il Cappellaio Matto, il Cuoco, il Bruco, la Seconda Alice, Tweedledum e Humpty Dumpty), Giulia Galiani (March la Lepre, la Regina Rossa, la Quarta Alice, il Bianconiglio, la Regina Bianca e il Cerbiatto) e Odette Piscitelli (la Regina di cuori, la Duchessa, la Terza Alice, Tweedledee e l'Unicorno). Tra le tante chiavi di lettura dell’opera, Tarasco sceglie quella di considerare Alice come sorella rovesciata di Amleto. Se infatti lui si rifugia nella finzione della follia, lei si rifugia nella follia della finzione, dove tutto può essere o non essere. E che di cambio di prospettiva si tratti appare subito chiaro fin dall’inizio dalla sorprendente scenografia, che assegna il ruolo di quarta parete al soffitto del claustrofobico ambiente che evoca, a metà tra una cella di carcere e di manicomio, costringendo gli attori a sfidare non solo le acrobazie verbali che il testo richiede ma la forza di gravità stessa, facendoci tornare alla mente la seconda avanguardia romana di Giorgio Barberio Corsetti e quella napoletana del primo Mario Martone di Falso Movimento. Ci scapperebbe di parlare di terza avanguardia borgioverezzina (dopo le coraggiose scelte del direttore artistico del Festival, Stefano Delfino) se il termine non fosse abusato al ribasso, ma ce ne guardiamo bene, per non indurre i nostri lettori (a cui auguriamo di assistere allo spettacolo) ad intenderlo solo come sinonimo di fantasiosa visionarietà alla ricerca del nuovo per il nuovo. Qui il nuovo e la visionarietà ci sono eccome, ma direi che predominano la coerenza stilistica ed il rigore. Romina Mondello, forte di una ventennale carriera cinematografica e televisiva (La Piovra, Palermo Milano solo andata, Highlander, Ama il tuo nemico, I guardiani del cielo, Le ragazze di Piazza di Spagna, Orient Express, Delitti Imperfetti – R.I.S., Milano Palermo – Il Ritorno) torna al teatro, dove ha già dato ottima prova di sé (Pulcinella, Le notti bianche, Donne informate sui fatti), con la statura consolidata dell’attrice matura per una grande prova d’interprete e raggiunge questo con l’umiltà di una dedizione vocale e fisica (ai limiti dell’acrobatico) che l’aderenza all’insolita prospettiva scenografica e verbale richiedono, per 70 tesissimi minuti.
FAUST
Non ci sono risultati chiari i termini dell’operazione tentata da Glauco Mauri a proposito del “Faust” di J. W. Goethe, rappresentata presso il Teatro G. Chiabrera di Savona. Il pur lunghissimo spettacolo, propostoci nell’allestimento della Compagnia Mauri-Sturno, è, in definitiva, un non troppo riuscito collage antologico di scene tratte dalle due parti del capolavoro tedesco. Ma si fa fatica a capire secondo quali criteri è accaduto ciò. Certo non quello di favorire l’intelligibilità dell’opera. Vezzo culturale oggi imperdonabile per chi, riproponendo certi classici, assolve il dovere di tenere in vita i grandi capolavori della letteratura teatrale (non del teatro si badi bene), che altrimenti resterebbero lettera morta per la maggior parte ed appannaggio, tutt’al più, dei soli studiosi specialisti. La grande complessità della storia è imperniata sulla figura di Faust che, al termine della sua vita, nel fare i conti con se stesso, non trova un significato reale alla sua esistenza, un attimo che sia valso la pena di essere vissuto. Nell'udire tali riflessioni, compare il diavolo, che propone il più classico dei patti: in cambio della "felicità", cedere la propria anima, una volta morto. Faust accetta, ma concederà l’anima solo quando affermerà di voler fermare la bellezza di un attimo. Prende così il via la nuova vita di Faust, nuovamente giovane, affiancato dal diavolo, che ha preso le sue sembianze da vecchio. Se non diamo per scontata, a priori, un’ottima conoscenza della trama dell’opera da parte dello spettatore, assistere alla rappresentazione della riduzione di Mauri diventa un poco disorientante. Ma vi sono altri elementi che ci rendono dubbiosi in questo allestimento. Ad esempio la scelta di tradurre in prosa qualcosa che, nell’originale, è in versi. Pensiamo per un attimo a che giudizio daremmo se assistessimo alla rappresentazione teatrale di una riduzione in prosa tedesca di alcune canti della Divina Commedia. Ci sono delle scusanti, è vero: la dimensione gigantesca dell’opera (21.000 versi circa, che, nell’impresa titanica della rappresentazione integrale, realizzata da Chereau, durava 22 ore!), e la straordinaria varietà di scene e di situazioni che richiederebbe un allestimento in cui prevarrebbero gli effetti speciali sul resto e sul testo (ma forse Goethe ci aveva pensato, o no?). Tuttavia, sia la correttezza (la traduzione è di Dario Del Corno), sia la sapienza riduttiva (effettuata dallo stesso Del Corno in collaborazione con Glauco Mauri) qui ci sembrano un poco carenti. Nello spettacolo non mancano punti forti, intendiamoci: le suggestive e grandiose scene di Mauro Carosi ed i brillanti colorati costumi di Odette Nicoletti, le musiche funzionali di Germano Mazzocchetti, le ottime doti interpretative di Glauco Mauri, assecondato con dedizione filiale da Roberto Sturno. Sono tutti elementi positivi, tuttavia, alla fine della rappresentazione, resta una sensazione di occasione perduta, che proviamo a spiegare. Intanto diciamo subito che, i rari momenti in cui la scena si svuota del carisma del mattatore, essa resta “vuota”, in quanto tutta l’operazione è basata sulla centralità del protagonista. Il cast degli interpreti, tecnicamente di buon livello, per gli standards della scena italiana, (Cristina Arnone, Marco Blanchi, Matteo Cicogna, Mino Francesco Manni, Alessandro e Francantonio Menin, Simone Pieroni, Dora Romano, Alessandro Scavone), nella regia di Mauri, non ha né una reale personalità né una vera coralità, ma fa tappezzeria e scompare sullo sfondo dell’anonimato. Certo, chi può negare ad un grande della scena di allestire ciò che vuole e come vuole, per di più rischiando il “proprio” capitale? Ci mancherebbe altro. D’altronde sembra la deriva intrapresa da tanti altri grandi della scena italiana (Albertazzi, Bosetti, Lavia, ecc.) che, insofferenti dell’abbraccio impegnativo e senza sconti di un regista, reputandolo insopportabile e soffocante, quando non dannoso, hanno deciso di ballare da soli. Ma avanti di questo passo il teatro muore. Spesso, a questa non nuova considerazione, ci siamo sentiti rispondere che solo così si può fornire un prodotto sicuro e... “riempire” i teatri. Ma sono certi che è questo ciò che il pubblico veramente desidera? Fino a quando durerà questa soggezione psicologica della platea alla forma del mostro sacro, indipendentemente dalla sostanza di ciò che offre? Infatti cosa desidera, ed offre, un mattatore? Un grande testo classico sicuro, senza rischi di una novità che potrà non piacere, senza nessuna intenzione di assecondare qualche velleità registica (si pensi all’involuzione di Ronconi), con in più la possibilità di ruotare il cast in modo che tutto sia mirato al proprio indiscutibile dominio in scena. Mauri non fa Faust, ma il grande vecchio bianco per antico pelo, quasidannato mapoisalvato, non fa Mefistofele ma un diavoletto-Charlot tantosimpatico (mentre Dio parla con un effetto di reverbero che lo fa sembrare costipato ed incatarrato), cioè il grandissimo interprete Glauco Mauri ha finito per fare solo l’istrione Glauco Mauri, tanto gli basta per strappare l’applauso. Per chi è andato a vedere il grande Faust di Goethe, scusate, ma non basta proprio. Tra l’altro, accanto ad alcune suggestive soluzioni (una nuvola magistrale, una salita al cielo con strascico gigantista, un teatrino del potere ingessato in se stesso, ecc.), non mancano alcune scivolate di gusto, involontariamente comiche (una cecità ricercata con un gesto come se si giocasse a mosca cieca, un homunculus con una voce da particella di sodio della pubblicità, una sfilata di Filemone e Bauci con il Parkinson, ecc.). Vi sono poi i limiti oggettivi. Per esempio, perchè scegliere per interpretare Margherita, che dovrebbe essere quanto di più delizioso ed attraente esiste in una ragazza, emblema della seduttività dell’eterno femminino, un’attrice, pur brava, ma non certo dotata di una adeguata avvenenza? E che dire delle scene della passione amorosa, che ci aspettavamo travolgenti e cariche di seduttività, recitate con il fuoco della passione che potrebbero avere due ghiaccioli? Ma Mauri è un genio, saprà riscattarsi da par suo, già si intravede una intrigante proposta per la prossima stagione. Allora, al di là dello spettacolo, solo in parte riuscito del Faust di Mauri, anche in conclusione di una stagione che abbiamo fedelmente seguito e recensito (cosa ormai rara nella stampa locale, che si limita a fare il trailer patinato di ciò che vedremo, ma non il commento con un giudizio motivato, di ciò che abbiamo visto), il discorso non può che allargarsi allo stato della scena italiana, che è stato così fedelmente rappresentato dal dignitosissimo cartellone del Teatro Chiabrera. Non vorremmo essere troppo ottimisti, ma ci sembra, per la prima volta dopo tanti anni, che oggi siamo al punto di non ritorno di un grande cambiamento, ancora bloccato, però, con tenacia, da chi, un giorno artefice di una grande stagione culturale, detiene ed amministra delle rendite di posizione non più giustificabili. Sta al pubblico dare la spinta decisiva, scegliendo di dire basta a quel sottile odore di roba stantia che oggi ancora aleggia nell’aria teatrale. Non basta più coprirlo (ma fino a quando sarà ancora possibile?) con l’azione di un deodorante invasivo e dalla confezione seducente. Non sarebbe più semplice aprire la finestra per cambiare aria e portare in discarica la merce scaduta ed avariata? Ma per farlo ci vuole coraggio. Anche la mano pubblica può e deve fare la sua parte. Il tempo del pacchetto culturale completo, all inclusive (magari scontato), offerto in blocco prendereolasciare, ci sembra destinato a scomparire, somiglia troppo ad un voto politico senza preferenza in cui tutto è deciso a priori dalla segreteria del partito. Che il pubblico lo possa dire chiaramente, colle sue scelte effettuate, cosa funziona e cosa no, senza nessuna diatriba sui massimi sistemi culturali, ma semplicemente, decidendo a quali spettacoli andare e a quali no. E se il problema fosse quello di far quadrare i conti, si usi la consolidata formula di introdurre, sulla scorta delle altre civilissime nazioni, anche il biglietto last minute (ventiquattrore prima), con cui completare il placement dei posti vuoti, a prezzo fortemente scontato, unica risorsa per chi ama il teatro, ma ne è tenuto lontano da una congiuntura economica negativa e da un mercato dello show business, che impone il prezzo di un biglietto pari, almeno, a quello di mezza giornata di salario.
George Dandin
Prodotto da un composito consorzio (Eventi Arte, Teatroper, Enfi Teatro Srl e Festival Teatrale di Borgio Verezzi) è andato in scena nell’ambito della 45^ edizione del Festival Teatrale di Borgio Verezzi Il marito scornato (George Dandin) di Molière nella traduzione e adattamento di Maurizio Micheli e Alberto Gagnarli che ne firma anche la regia. Testo sublime, nel fotografare in maniera esilarante una situazione storica emblematica, in cui si comincia ad affacciare alla ribalta sociale una classe di lavoratori che ha accumulato un buon reddito col duro lavoro (ed aspira a crescere nella scala sociale, anche comprandosi la nobiltà con un opportuno matrimonio), mentre parallelamente scivola verso la miseria una nobiltà disposta a svendere per un piatto di lenticchie il proprio blasone. Le contraddizioni non mancheranno e sono il sale della storia: le inevitabili corna, ma soprattutto l’impossibilità di dimostrare ai genitori di lei e quindi a tutto il mondo, il tradimento perpetrato a suo danno. Dandin avrà sempre torto, comunque, anche di fronte all’evidenza, perché la classe dominante ha sempre ragione per “diritto divino”. La commedia venne rappresentata la prima volta a Versailles nel 1668 nell’ambito del Grand divertissement Royal, con musiche di Lulli, e creò grande scandalo, appena attutito dall’esilarante succedersi delle scene farsesche, dove emerge una comicità di situazione che rende agro-dolce la vicenda nel contrasto tra farsa e verità. Dandin perdente nella storia sarà vincente nella Storia con la S maiuscola. Un secolo dopo. Nella versione a cui abbiamo assistito a Borgio prevalgono i toni dello scanzonato divertimento, con ammicchi alla comicità di stampo televisivo, che tanta parte del teatro hanno ormai contaminato. Si ride e si pensa però, malgrado ciò. E non è poco. Un ottimo cast vede sul palco Benedicta Boccoli (Angelica), Barbara Bovoli (Claudina), Matteo Micheli (Baccalà), Maurizio Micheli (George Dandin), Luigi Pisani (Clitandro), Simonetta Potolicchio (Signora Di Sotenville), Marco Prosperini (Lubin), Aldo Ralli (Signor Di Sotenville). La semplice scena naif è di Antonio Panzarella, i costumi di Eleonora Gismondi, le musiche funzionali di Michele Paulicelli. Il successo dello spettacolo è assicurato principalmente dalla bravura di Maurizio Micheli, che si conferma ottimo attore teatrale, certamente all’altezza delle sue migliori performance televisive (A tutto gag, Due di tutto, Al Paradise, Grand Hotel, Fantastico 8, Gran Casinò) e cinematografiche (La terrazza, di Ettore Scola, Cafè Express di Nanni Loy, Rimini Rimini, di Sergio Corbucci, Saint Tropez, Saint Tropez di Castellano e Pipolo, Un’estate al mare di Carlo Vanzina).
Fosse almeno una operazione ricostruttiva filologicamente coerente. Di quelle belle mummificazioni teatrali in formalina fatte da seri specialisti per confortare studiosi del romanticismo dubbiosi; invece no. Neppure quello. Ci troviamo di fronte all’ennesima operazione (non riuscita) di Gabriele Lavia di rileggere i classici in chiave pseudomoderna.
C’è purtroppo chi ritiene che questa sua impresa sia un fatto nobile ed encomiabile. Io temo piuttosto che sia una sorta di Finale di Partita beckettiano, l’ennesimo canto (speriamo l’ultimo) di un teatro a corto di idee che scambia la necrofilia per la vita, e sogna di trovare nei cimiteri il nido della sua araba fenice, che risorge, secondo gli insegnamenti dei Silente harrypotteriani, dalle ceneri.
Come vorremmo sulle scene italiane un teatro che sappia parlare di cose d’oggi, con la lingua d’oggi, alla gente d’oggi. E intanto assistiamo ai Masnadieri attualizzati.
Chi sono oggi questi ribelli distopici che vivono nella Selva Boema? I punkabbestia del G8 di Genova? Gli anarco-insurrezionalisti delle bombe-carta ad Equitalia? Gli indignados spagnoli? I V-for vendetta anti wall street di Zuccotty Park? I black bloc che animano le piazze? I movimentisti dei forconi siciliani? I fannulloni di Brunetta? I bamboccioni di Padoa Schioppa? Almeno sono il popolo dei rave party ruspanti alla ballacoicinghiali calizzanesi?
Nulla di tutto ciò. I masnadieri appaiono in pose da fotomodelli, tributari dei Velvet Underground andywharoliani, un misto di dark, di dandy libertini dinoccolati e sculettanti, di banda metallara, di romanzo criminale, di gang del Bronx con pistole, un po’ pulp fiction di Quentin Tarantino e un po’ Disquared e vestono stivali, pantaloni attillati, cilindri e bombette mix Dolce & Gabbana, griffati dal costumista Andrea Viotti.
Percorrono la scena-non scena di Alessandro Camera (che evidentemente apprezza molto Peter Brook) fatta di un palcoscenico coperto da uno strato di terra e muschio, tra pali di metallo come alberi di una foresta, dove al posto della chioma sorgono globi di luce, una poltrona qua (per figurare lo scranno dove siede il potere), un praticabile là, ma facilmente spostabile e multifunzione. Nell’aria si ascoltano orecchiabilissime marcette acustiche di Franco “PFM” Mussida che dimentico del rock progressivo cede alle sonorità fusion celtiche alla Alan Stivell. Persino qualche canzone con chitarra e voce live in scena da dimenticare subito.
E poi la solita recitazione pseudo nevrotica tra Profondo Rosso e Scandalosa Gilda (due perle del Lavia cinematografico). Piange il cuore a vedere un attore della sensibilità interpretativa e della capacità tecnica di Francesco Bonomo che mette nell’interpretazione una energia intensissima, di essere costretto, dopo vent’anni di palcoscenico, a fare ancora il piccolo Lavia, nel ritmo delle battute, negli assoli, nell’irruenza trattenuta, nel pathos eccessivo, sempre in equilibrio tra credibilità interpretativa e parodia di se stesso.
Ma tutto passa via e viene scordato subito. Non c’è pietra di inciampo. Nella centrifuga dell’allestimento il testo di Schiller perde il poco di buona morale e filosofia che aveva, perde l’enfasi del sentimento rivoluzionario, perde la polemica contro le istituzioni politiche e sociali, perde il titanismo della ricerca se porre l’assoluto in Dio o nella Natura. Resta solo la doppiezza del bene e del male, che convivono all’interno dello stesso individuo, ma vissuta con la nonchalance narcisistica di chi comunque si compiace di essere un mauvaise garcon damné bello e impossibile che piace tanto alle brave ragazze di buona famiglia ed anche al padre che ha fatto morire dal dispiacere.
E infine tanti spari in scena, qualche morto. Forse anche il teatro.
Ma l’opera a cui abbiamo assistito è senza dubbio inconsueta, per l’operazione, non priva di rischi, compiuta da Luca Simonelli e Giuseppe Pambieri, che hanno ricavato un testo fluido e scorrevolissimo grazie ad un collage derivato dalla traduzione e dall’adattamento dei testi di Heinrich von Kleist, Jean-Baptiste Poquelin Molière e Plauto.Infine, è classicissima la messa in scena fattane dallo stesso Pambieri (interprete anche del doppio ruolo di Giove ed Anfitrione) che recita con la sicurezza e l’autorità che lo hanno sempre contraddistinto attorniato da un cast di tutto rispetto: Lia Tanzi (Alcmena, la moglie di Anfitrione), Nino Bignamini (Sosia, attendente di Anfitrione), Simonetta Potolicchio (Bromia, serva di Alcmena e moglie di Sosia), Sebastiano Colla (Mercurio), Fabrizio Apolloni (Capitano Naucrate).Le musiche evocative sono di Paolo Casa. I costumi, acontestualizzati in uno chic fuori tempo, sono di Lia Tanzi. Il disegno delle suggestive luci é di Mattia Russo.La storia è nota: Giove invaghitosi della bella Alcmena, assume per sedurla le sembianze del marito Anfitrione, partito in guerra, e con l’aiuto del figlio Mercurio (non a caso dio dell'eloquenza, del commercio e dei ladri), che assume le sembianze del di lui attendente Sosia, riesce nel suo intento. Ovviamente questo scambio finisce per creare una serie di esilaranti ed irresistibili equivoci che saranno risolti con il più tradizionale espediente teatrale dell’intervento divino: il deus ex machina.Lo spettacolo, trasposto in epoca moderna, non può evitare la riflessione sul sistema odierno che, rispetto a quello costellato di divinità capricciose, sembra ripetersi nei meccanismi socio culturali della nostra attualità:.mutatis mutandis, che qui si traduce in “provate a cambiare i nomi delle divinità e…”.
LA PAROLA AI GIURATI
Il teatro finalmente. Anzi il Teatro. Quello con la t maiuscola, quello che si dovrebbe scrivere e fare abitualmente ed invece sembra così difficile da realizzarsi, almeno in Italia. A questo abbiamo assistito al Teatro Comunale Chiabrera di Savona in cui era programmata la pièce “La parola ai giurati” (Dodici uomini arrabbiati) di Reginald Rose, prodotta dal teatro Stabile d’Abruzzo e dalla Società per Attori, con la regia e l’interpretazione di Alessandro Gassman, coadiuvato da altri undici ottimi attori, Emanuele Maria Basso, Fabio Bussotti, Nanni Candelari, Paolo Fosso, Manrico Gammarota, Giulio Federico Janni, Massimo Lello, Sergio Meogrossi, Giancarlo Ratti, Giacomo Rosselli, Emanuele Salce. Non ci stupisce affatto che lo spettacolo abbia vinto il Biglietto d’Oro Agis-Eti 2007-8 come campione d’incassi e presenze, il Premio nazionale critica teatrale 2008 e il Premio Golden Graal 2008. Segno che quando il teatro è valido e non un vuoto esercizio narcisistico od intellettualistico il pubblico fa la fila per vederlo. Abbiamo apprezzato tutto della lunghissima (tre ore di rappresentazione) ed avvincente serata (mai un solo attimo di distrazione), era tanto tempo che non ci succedeva. Cominciamo dalla trama, scritta da un autore in stato di grazia più di mezzo secolo fa, che non dimostra neanche lontanamente i cinquanta e passa anni di età, grazie anche alla nitida traduzione di Giovanni Lombardo Radice. Assai semplice e lineare, comprensibilissima da tutti, colti ed ignoranti. La storia si svolge in una caldissima New York, il 15 agosto 1950. Una giuria popolare composta da dodici uomini di diversa estrazione sociale, età e origini, è chiusa in camera di consiglio per decidere del destino di un ragazzo ispano-americano accusato di parricidio. Devono raggiungere l’unanimità per mandarlo a morte e tutti sembrano convinti della sua colpevolezza. Tutti ad eccezione di uno che con meticolosità e intelligenza costringe gli altri giurati a ricostruire nel dettaglio i passaggi salienti del processo e, grazie a una serie di brillanti deduzioni, ne incrina le certezze, insinuando in loro il principio secondo il quale una condanna deve implicare la certezza del crimine al di là di ogni ragionevole dubbio. Fra violenti contrasti, dubbi, ripensamenti ed estenuanti discussioni, l’unanimità sarà raggiunta e l’imputato verrà dichiarato non colpevole. A fare da cornice a tutto ciò le cinematografiche scene di Gianluca Amodio che ci ricordavano il film di Sidney Lumet tratto da questa pièce, i realistici e funzionali costumi di Helga H. Williams, le coinvolgenti musiche jazzistiche di Pivio & Aldo De Scalzi, le suggestive luci del light designer Marco Palmieri ed i puntualissimi effetti sonori del sound designer Hubert Westkemper. E dentro gli attori, tutti superlativi, un vero pacchetto di mischia, compatto e funzionale. Mai un eccesso, un effettaccio, una gigioneria, un ammiccamento, ma sempre lucida consapevolezza, precisione di enunciazione, nitidezza di eloquio. Un affiatamento magnifico che risultava così coinvolgente per il pubblico da non permettergli un solo applauso (e ci sarebbero stati molti momenti che lo meritavano), per la preoccupazione di “disturbare” con esso il meraviglioso meccanismo aristotelico di unità di tempo, di luogo e di azione che avevamo di fronte, di essere un granello di sabbia inopportuno in un oliatissimo orologio. Avevamo paura di perderci anche una sola battuta, un contraddittorio contrappuntistico di questo sapiente puzzle di contrasti, che si delineava via via con la determinazione di una complessa e calibratissima azione-reazione, come se le singole vicende di ogni personaggio fossero la parte armonica di un tutto, le traiettorie ineludibili di un grappolo di bocce scontrate dal pallino dentro un fumoso tavolo di biliardo. Che tutte le palle andranno in buca salvo il pallino, lo sappiamo fin dall’inizio, ma non è per questo che si guarda il gioco. Lì conta il come, qui anche il perché. Ne “La parola ai giurati”, l’impianto drammaturgico si basa sullo svolgimento di un dramma giudiziario. Ma in realtà emerge subito la possibilità di portare alla luce i pregiudizi e le false certezze che caratterizzano il comportamento dei giurati e che affiorano nel momento in cui devono assolvere il compito più difficile per un uomo: quello di decidere della vita di un altro uomo. La vicenda è incentrata su due capisaldi del sistema giuridico anglosassone: la presunzione di innocenza e la dimostrabilità della sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. In un’epoca in cui il mondo è afflitto da ideologie contrastanti che si nutrono di assolutismo e che spesso scadono a pregiudizi, il “ragionevole dubbio” è una preziosa arma di difesa. Non a caso lo spettacolo ha avuto il patrocinio di Amnesty International. Ecco allora emergere il ruolo del protagonista: l’architetto. Chi è questo architetto, se non un angelo custode del bene, sepolto nell’animo delle persone? Chi è se non un messaggero di speranza, un titano della certezza, del “si può fare”, una persona che ti viene incontro e ti aiuta a risollevarti e non ti accusa perché sei diventato malvagio? Cosa è la corruzione dell’anima se non aver creduto che per vivere sia necessario nascondere questo bene come una debolezza nel tuo intimo? Dopo lunga e sofferta battaglia il lato migliore di ogni giurato emerge e 12 uomini “arrabbiati” (cioè fragili) diventano 12 uomini “decisi” (cioè solidi), pronti a fare giustizia, cioè a mandare assolto quello che potrebbe “anche” essere un assassino. Meglio così. Molto meglio. Si chiama lieto fine tutto ciò? Forse è molto di più, anche se facciamo fatica ad ammetterlo, e più che mai fatichiamo come matti ogni giorno se tentiamo di farlo. Applausi liberatori e di gratitudine al termine, standing ovation, abbiamo contato almeno 30 chiamate ed un battimano ininterrotto per almeno 10 minuti. Chapeau.
Le allegre comari di Windsor
Che piacere assistere ad uno spettacolo colto e popolare, fresco e frizzante, spigliato, ma che sa al tempo stesso far meditare, che riempie gli occhi di visioni colorate e chiaroscurali e le orecchie della modernità di arie che, a bella posta, sanno di antico (ma non vecchio si badi bene).Queste sono alcune sensazioni che hanno colpito gli spettatori, alcuni dei quali giovanissimi, in virtù del fatto che lo spettacolo era inserito nell’ormai consolidato abbonamento studenti, una best practice da tutelare assolutamente. Ed è puntuale, ma piacevole, responsabilità di un recensore riportarle.Si tratta dello spettacolo di apertura della Stagione di Prosa del Civico Teatro G. Chiabrera di Savona, Le allegre comari di Windsor, di W. Shakespeare, nella traduzione e adattamento di Fabio Grossi (che ne firma anche la regia) e Simonetta Traversetti, con protagonista Leo Gullotta, sostenuto da Alessandro Baldinotti, Paolo Lorimer, Mirella Mazzeranghi, Fabio Pasquini, e con Rita Abela, Fabrizio Amicucci, Valentina Gristina e Cristina Capodicasa, Gerardo Fiorenzano, Gennaro Iaccarino, Federico Mancini, Giampiero Mannoni, Sante Paolacci, Sergio Petrella, Vincenzo Versari. Belle, tra il naturalistico ed il simbolico, le scene ed i costumi di Luigi Perego, sapientemente illuminate da Valerio Tiberi, vivaci le musiche di Germano Mazzocchetti che ben assecondano le coreografie di Monica Codena.La commedia narra una società, che vive sotto l’occhio della Corte, dove lo scherno reciproco è l’attività più praticata. La più svariata umanità entra nella vicenda: amanti, guasconi, burocrati, mariti gelosi, golosi mercanti, mercenari infingardi. Si alternano momenti comici, grotteschi e romantici, ma su tutti trionfano le comari che circondano il protagonista, Sir John, il gigantesco Falstaff, “una balena con la pancia piena di barili d’olio”, guascone, cialtrone, crapulone. Lo spettacolo che ha avuto la prima nazionale al Teatro Romando di Verona nell’importante Festival Shakespeariano dell’Estate Teatrale Veronese, è stato prodotto dal Teatro Eliseo di Roma ed ha visto Leo Gullotta affrontare per la prima volta Shakespeare in un ruolo da protagonista, vestendo i panni “non proprio fatti su misura” di un Falstaff, comico ma intriso di elementi tristi quanto amari.Una prova magistrale applauditissima che si aggiunge a una carriera costellata di grandissimi successi: due Nastri d’argento (1984 e 2002) e un Davide di Donatello (1987) nel cinema, e recentemente il Premio Flaiano e il Premio Govi, entrambi alla carriera.
MISURA PER MISURA
E’ mezzanotte passata da un pezzo quando conquisto l’aria aperta di Corso Italia, metafisicamente deserto. Sono appena uscito dal “forno luciferino” del Teatro Chiabrera di Savona, che con quella temperatura avrebbe dovuto ospitare più giustamente i decolleté delle belle signore (non se ne videro, piuttosto qualche cachemirino stile “agiata professoressa”). Anche questo è segno dei tempi. Dove sono le/i wildiane/i frequentatrici/tori di teatro, che lì vanno (nell’ordine) per vedere chi c’è, come sono vestite le altre signore, lo spettacolo, ma, soprattutto, per essere viste? Di stravagante ci fu qualche improbabile montatura di occhiali maschili e qualche codino imbiancato, ultima bandiera di un improbabile tasso testosteronico di lontana giovinezza. C’é voglia di cultura “vera” nel foyeur, e la mondanità, anche in sedicesimo come quella savonese, come il verbum veltronianum ci insegna, è il suo miglior suggello. C’è da chiedersi, allora, “Il misura per misura” di William Shakespeare per la regia e l’interpretazione di Gabriele Lavia questa voglia di cultura l’ha soddisfatta? Ci è stato spiegato dal simpatico ed accorto direttore della nostra massima istituzione culturale, che la scelta di inserire in cartellone sempresempresempre qualche grande classico è vista dagli amministratori come una sorta di dovere morale educativo per il popolo, specie quello più giovane (poi, del resto, di tutto un po’). La cultura, che fa volare Savona, è anche questo? Si tratta di un jet che può volare dove vuole o di un parapendio che si barcamena alle correnti ventoso-modaiole di quel che passa il convento teatrale italiano? Che con Lavia non si trattasse di un volo low cost fu subito chiaro. A questo penso camminando lungo il viale, mentre le parole di S. Matteo mi rimbombano nella mente (“con la misura con la quale misurate sarete misurati”) e ripercorro a memoria la lunghissima serata teatrale, dove della vivace traduzione di Alessandro Serpieri, nulla è andato sprecato, pur a dispetto di una struttura drammaturgica oggettivamente fragile, incerta tra la commedia ed il dramma. Nulla è stato tagliato, neppure il riepilogo degli eventi, quasi ad imitare lo stile delle telenovelas, se qualcuno si fosse distratto ha la possibilità di recuperare senza dovere chiedere al vicino di posto. Come risolve questa indefinitezza drammaturgica Lavia? Facendo due scelte precise: identificare il nodo centrale della pièce con la tematica sessuale, vista come pulsione profonda, sottosuolo che genera ogni azione umana, metafora del peccato e della corruttibilità umana, e dare consistenza scenica a questa indefinitezza libido-magmatica usando un pastiche di generi, in cui, senza soluzione di continuità, convivono il feuilleton, il thriller, l’horror, il cabaret, il musical quando non addirittura il reality show della diretta televisiva dal tribunale. Tra Freud e l’operetta, viennesi naturalmente, pour épater les burgeois (che invece sono di bocca buona e tutto si bevono goduti, basta che sopra ci sia il logo dello stilista di razza). Aprendo l’album fotografico trenetiano del come eravamo, la cosa appare ancora più chiara: que reste-t-il des tous beaux jours? Une foto, une vielle foto de ma jeunesse, quando l’avanguardia era avanguardia ed i classici erano classici, ed anche la rivisitazione avanguardista dei classici era tale. Lavia chiude l’album della rivisitazione di un classico, e dà il là alla rivisitazione dell’avanguardia che un dì rivisitò i classici. Se di operazione culturale si trattò, fu duplice: la riproposta del repertorio classico e quella del repertorio avanguardistico. Se questo era l’intento, la scelta di portare questo spettacolo al Chiabrera fu due volte saggia ed i soldi pubblici furono ben spesi (quelli del Teatro di Roma diretto da Giorgio Albertazzi, che finanziò l’allestimento per la Compagnia Lavia-Anagni e quelli dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Savona che lo comprò). E adesso siamo qui. Ci accoglie in sala una spettacolare scena a pannelli mobili firmata da Carmelo Giammello che sta a metà strada tra la Vienne Sezession e Blade Runner, i cui movimenti creano i cento luoghi nei quali si snodano gli attori, pirotecnicamente vestiti con i costumi di Andrea Viotti, tra lucenti impermeabili e guepière, tra grisaglie ipocrite del potere perbenista e tonache, tra Boccaccio, Matrix, Weimar e Fassbinder. Si inizia con un rave party, condotto dal nano, e scusate se è poco direbbe Petrolini, Abortroione (Andrea Nicolini), e ballerine, nel premiato bordello di Madama Strafatta Sfondata (Rita Di Lernia), un nome una garanzia, dove una non raccomandabilissima fauna di fantasmi di lussuria quotidiana metropolitana, rappa il tormentone “stupidi e folli”, scuotendosi vigorosamente sulle coreografie punk metallare di Luca Tommassini, al ritmo delle musiche di Andrea Nicolini, investiti dal cupo disegno delle luci di Giovanni Santolamazza. Mais c’est qu’un debut. Arriveranno la metaforica stazione sotterranea della metropolitana dismessa con tanto di ventola di aerazione, un gabinetto pubblico con veri pissoir, una galera, una chiesa, un gabinetto legale, un convento, ecc. ecc. La storia in breve è quella del Duca di Vienna (GabrieleLavia) che incapace di combattere l’immoralità del suo popolo lascia il potere all’apparentemente integerrimo Vicario Angelo (Lorenzo Lavia), ma poi, travestito da frate, assisterà alle degenerazioni che derivano da una cieca interpretazione delle leggi, unita al macchiarsi delle stesse colpe che si vogliono con rigore punire negli altri. Happy end finale con quattro matrimoni e nessun funerale. Lavia corre e fa correre i suoi attori sul filo dell’acrobata, tra genialità e rischio di scivolate kitsch. Ma con quali risultati? Non sempre riusciti se si pensa all’imposizione di certe sgradevoli vocette meccaniche, che fondono il disarticolato ronconese all’automa Tic del vecchio Carosello (“or che bravo sono stato posso fare anche il bucato?”) o addirittura al Franz del primo Paolo Villaggio (“chi fiene poi atesso?”). Talvolta appare pateticamente caricaturale l’imposizione di un cliché, come per il Bargello (Marco Cavicchioli), che costringe in una tenuta sadomaso uscita dal Rocky Horror Picture Show e lo fa atteggiare a dark queen. Scopriremo solo alla fine che ha gusti rigorosamente etero avendo ingravidato una prostituta e che sarà costretto a sposarla (chissà la soddisfazione del nascituro di essere figlio di cotanta coppia). Ma se questi inutili eccessi fanno emergere la faccia nascosta dell’avanguardia antropofaga, che di se stessa si nutre e nulla risparmia, naturalmente questo rischio non lo corre Lavia, che alterna con disinvoltura tre distinti livelli di recitazione: uno con cui fa parlare il Duca, il quale in contrasto con la mise manageriale sobrio-elegante stile Armani, usa una sorta di rapidissimo linguaggio “a cottimo”, con ritmi espressivi così elevati di velocità e segmentazioni della frase tali per cui, a volte, risulta difficile capirlo; un altro quando interpreta con abito talare parrucca e zucchetto un bonario frate, tentando, in verità senza troppo riuscirci, anche la via della comicità, che non è troppo nelle sue corde, a metà strada tra don Matteo e Bud Spencer; ed infine, il terzo, che è quello del grande declamatore classico, quando si compiace di dare spessore ad una frase, fosse anche in apparenza la più insignificante. E qui (ma non altrove) la scommessa dell’applauso è vinta. Ma, a volte nelle pieghe più riposte dell’avanguardia, onestamente più emule dell’oggetto a lacaniano che shakespeariano, si trova la perla. Come quando il giovane, ma già grigiocrinuto Angelo, in preda ad un delirio erotico per la novizia Isabella (Federica Di Martino), manifesta, con la sedia su cui essa è stata fino a poco tempo prima seduta, un transfert feticistico giocando con essa, tenendola in equilibrio e rischiando di lasciarla cadere, per abbracciarla infine in un amplesso di inappagato possesso. Metafora della vita e dell’attore che tiene in pugno il pubblico ed in ogni istante rischia il crollo per il piacere di entrambi. Hanno assecondato il disegno di Gabriele Lavia con encomiabile disciplina, oltre ai già citati attori, anche Pino Ammendola (Gomito), Fabio Massimo Amoroso (Frate Pietro), Tamara Balducci (Giulietta), Pietro Biondi (Escalo), Francesco Bonomo (Lucio), Gianni De Lellis (Pompeo), Luca Fagioli (Chiappa), Alessandro Riceci (Claudio), Giorgia Salari (Mariana), Faustino Vargas (Schiuma). Completano il cast: Claudio Ammendola, Alessandro Cangiani, Giovanna De Maio, Sidi Diop, Francesco Laruffa, Viviana Lombardo, Matteo Micheli, Fabrizio Vona. Il viale è finito. In fondo c’è il mare. Aspettiamo il via per un altro giro di giostra, en attendent il brechtiano Galileo di Branciaroli.
Molto rumore per nulla
E’ un magnifico spettacolo quello andato in scena in occasione dell’apertura della stagione di prosa del Teatro G. Chiabrera di Savona. Prodotto dalla Fondazione Toscana Spettacolo e dalla Compagnia Lavia con il Teatro di Roma, “Molto rumore per nulla” di William Shakespeare, nella nitida traduzione di Chiara De Marchi per la regia di Gabriele Lavia, riesce nell’intento di riproporre tutta la grandezza del grande teatro coniugandola però, sapientemente, con la passione e la freschezza di un gruppo di giovani, capitanati da un grande Lorenzo Lavia, che si compiace di mostrare il divertimento degli attori nel recitare, come se si trattasse di una festa scenica a cui tutti siamo invitati. Semplice la trama, ambientata nella solare città di Messina, dove il ricco Leonato accoglie nella sua magione il principe d’Aragona don Pedro di ritorno dalla guerra. L’atmosfera gaia e leggera dell’estate mediterranea fa da sfondo agli amori tra il giovane Claudio e la dolce Ero di cui sono imminenti le nozze, e tra i litigiosi Beatrice e Benedetto. Il “molto rumore” non è che l’eco dei loro battibecchi, strumento per nascondere il reciproco interesse. Ma don Juan, geloso del favore che Claudio gode presso don Pedro, fa di tutto per screditare Ero e impedirle così di sposare il suo amato. Nulla però potrà impedire all’amore di trionfare sui cattivi sentimenti che saranno giustamente puniti. Lo spettacolo è arricchito da tanta musica e tante canzoni, sapientemente composte ed eseguite da Andrea Nicolini, tutta musica dal vivo, pianoforte, flauto e chitarra in scena, e naturalmente le voci dei ragazzi che recitano, danzano, cantano e suonano, nelle essenzialissime scenografie di Gabriele Lavia stesso, ridotte a pochi arredi scenici, vestiti dai costumi di Andrea Viotti, a volte indossati, a volte solo appoggiati e a volte trascinati da attori in abiti di tutti i giorni, a seconda degli stati d’animo, a seconda della “maschera”, del ruolo, dell’apparenza. La forza scenica è data dalla compattezza del gruppo attoriale composto da Tamara Balducci, Pietro Biondi, Francesco Bonomo, Alessandro Cangiani, Claudia Crisafio, Silvia De Fanti, Gianni De Lellis, Federica Di Martino, Luca Fagioli, Igor Horvat, Lorenzo Lavia, Viviana Lombardo, Andrea Nicolini, Salvatore Palombi, Alessandro Riceci, Daniele Sirotti, Andrea Trovato e Faustino Vargas. Tre ore di spettacolo, retto con energia e brio, anche se alcune esagerazioni caricaturali potevano essere evitate, come quelle che caratterizzano la ronda notturna. Tre ore di piacere teatrale puro che sono volate via leste, perché finalmente si è ascoltato un testo shakespeariano detto per farlo capire in tutta la sua bellezza, senza inconsuete ed immotivate accelerazioni o stranianti ed arzigogolati rallentamenti, privo di quelle cesure volute solo per renderlo incomprensibile, cioè per fare gridare gli sprovveduti al miracolo del “grande dicitore”. Insomma un Lavia regista “vero” al servizio di un testo “vero” per attori “veri”, non narcisisti dandy al servizio del non detto e del non dicibile.
Quello che prende gli schiaffi
La nuova stagione di prosa 2011-2012 del Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona ha aperto con Quello che prende gli schiaffi di Leonid Nikolaevic Andreev, grande drammaturgo russo amato da Stanislavski e Mejerchol’d, i due padri nobili del rinnovamento teatrale del novecento, che fu subito un grandissimo successo nella Russia e quindi nel mondo, anche grazie alla versione cinematografica (He Who Gets Slapped), un film muto del 1924 diretto da Victor Sjöström e interpretato dal Lon Chaney. Allestito dalla Compagnia MAURI-STURNO, che festeggia il trentesimo anno della sua fondazione, è stato messo in scena con la traduzione e l’adattamento di Glauco Mauri che ne firma anche la regia. Il testo narra l’improbabile storia di un uomo, un giorno famoso e potente che, in seguito ad una delusione profondissima, decide di fuggire dalla società nella quale vive, dove tutto è dominato dall'egoismo, dall'indifferenza e dal denaro con cui tutto si compra, anche i sentimenti più puri. Diventerà un clown… che prende gli schiaffi, su un palcoscenico circense che meglio di ogni altro si presta a far ridere del suo dolore e dal quale potrà gridare la sua ribellione. Ovviamente si tratta di un luogo dove attraverso la finzione si raccontano le verità della vita. Lo spettacolo, nasce da una storia che tanto ci ha ricordato il mondo del celebre Professor Unrat di Heinrich Mann, e della bella e provocante cantante Lola Lola, stella del Der Blaue Engel, dove il grande regista Josef von Sternberg, rese immortale Marlene Dietrich. Cattura l’attenzione sin dal primo momento, totalmente privo di quei vizi mattatoriali classici fatti di gigioneggiate o ammiccamenti, è fluido, raffinato, formalmente molto bello, di una bellezza quasi ipnotica ed ha, paradossalmente, il sapore dell’omonimo cocktail L'Angelo Azzurro (6/ 10 Gin , 3/10 Triple sec o Cointreau e 1/10 Blue Curaçao). La bella scena stilizzata che tanto ricorda Gordon Craig ed Appia è firmata da Mauro Carosi, rappresenta la pedana circolare mobile di un circo con grande panorama di fondo, su cui si stagliano i fantastici giochi di luce di Giovanni Grasso, che amplificano cromaticamente le emozioni che via via si manifestano in scena. Qui ben 11 attori vestiti in sontuosi abiti circensi realizzati da Odette Nicoletti, danno vita ad una pantomima squisita, formalmente impeccabile (con movimenti mimici curatissimi di Michele Monetta), su avvincenti e struggenti musiche e canzoni suonate dal vivo (composte da Germano Mazzocchetti). Un cast di lusso vede giganteggiare Roberto Sturno (Quello che prende gli schiaffi) a cui fa da controscena il formidabile ottuagenario Glauco Mauri (Papà Briquet, il direttore del circo), circondati da uno stuolo di validi artisti: la giunonica Barbara Begala (Mara, una domatrice di leoni), la flessuosa Lucia Nicolin (Leda, una ballerina muta), un palestrato David Paryla (Manuel, un acrobata), Stefano Sartore, Leonardo Aloi e Roberto Palermo (il trio di clown musicisti Jacky, Polly, Tilly), un sussequioso e viscido Marco Blanchi (Conte Mancini dei Guardamagna), un gaudente depravato Mauro Mandolini (Barone Regnard), ed un funzionale Paolo Benvenuto Vezzoso (Un Signore). Applausi lunghi e vibranti alla fine, ma composti e dignitosi, come lo spettacolo a cui abbiamo assistito.
Servo di scena
Quando il teatro parla di se stesso e lo sa fare bene, per chi ama il teatro, è un doppio piacere. Questo è Servo di scena (The Dresser) di Ronald Harwood.E’ la storia dell’ennesimo back stage, l’ultimo, quello di Norman, aiutante di camerino di Sir, vecchio attore shakespeariano, egoista e trombone, ormai alla fine della carriera e della vita (che per lui sono un tutt’uno inscindibile), che, durante i bombardamenti nazisti sull’Inghilterra della seconda guerra mondiale, si ostina a portare in scena i sacri testi di William, ultima difesa, secondo lui, contro la barbarie. Poco importa se ormai li confonde, poco importa se le forze lo abbandonano e non riesce più ad essere il Lear che solleva la Cordelia ingrassata, nonostante i razionamenti, poco importa se la sua compagnia è una caricatura del teatro, una sorte di corte dei miracoli. Morrà dopo aver concluso lo spettacolo e, da ingrato quale è sempre stato, non lascerà nemmeno un ringraziamento nel frontespizio della sua autobiografia per il suo dresser e la sua direttrice di scena, le due uniche persone che, da due sponde di genere diverse, lo abbiano veramente e castamente amato, sino a sacrificare tutta la loro vita a quell’istrione che giganteggia solo in egoismo.
Metafora di una condizione scenica (ed umana) immobile, il testo ha 30 anni e narra di vicende di settant’anni fa, ma la perizia artigianale di una scrittura brillante ed incisiva, ne fanno un evergreen. Andato in scena nel 1980, in gran parte autobiografico, Harwood fu a lungo servo di scena di Sir Donald Wolfit, The Dresser divenne nel 1983 un gran film, con la regia di Peter Yates, interpretato da Albert Finney (premiato al Festival di Berlino) e da Tom Courtenay (cinque candidature agli Oscar). Ma non si trattò certo di un caso fortuito per il grande autore sudafricano che ha saputo firmare in seguito successi per la scena e per lo schermo come Diamanti a colazione, A torto o a ragione, Il pianista (Oscar), Oliver Twist, L'amore ai tempi del colera, Lo scafandro e la farfalla (premiato a Cannes), Australia, ecc.
La messa in scena a cui abbiamo assistito al Teatro Chiabrera di Savona, è prodotta dal CTB Teatro Stabile di Brescia e dal Teatro de Gli Incamminati, per la regia di Franco Branciaroli (che interpreta Sir), ben coadiuvato da Tommaso Cardarelli (che interpreta Norman). Che dirne? Pur riconoscendo una buona misura interpretativa ai due attori, lo spettacolo risulta piuttosto lento, e risente della mancanza di una regia da fuori, che governi saldamente il tutto e dia l’input vincente, secondo quella che è la buona norma scenica: per avere buoni frutti occorre potare, potare, potare.
Ancora una volta segnaliamo un vizio, che è di tanti attori italiani, i quali, avendo conquistato una solida fama lavorando diretti dai più grandi registi (nel caso di Branciaroli, Patrice Chereau, Aldo Trionfo, Carmelo Bene, Virginio Puecher, Luca Ronconi, Maurizio Scaparro, Luigi Squarzina, Gianfranco de Bosio), decidono che è venuto il momento di essere registi di loro stessi.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la gloria, anziché raddoppiare, si dimezza. Ma tant’é.
Questo poco salutare ritorno al passato sta cancellando quel poco che resta dell’epoca d’oro del teatro italiano: l’età dei grandi registi, razza che oggi sembra quasi sparita dalla circolazione.
Il teatro italiano è vecchio, ma anziché pensare ad un rinnovamento sembra compiacersi di questo. E cerca conforto nel vezzo di rifugiarsi nel dietro le quinte della scena di un secolo fa, che vuole identica a quella di oggi. Solo vecchiume che puzza di muffa, non testimonianza di una immortalità e di una universalità che probabilmente sono esistite solo nell’ipocrita retorica buonista dei temini liceali. Una domanda, retorica anch’essa: come mai la scena italiana non riesce a rinnovarsi, mentre ci riescono invece benissimo il cinema, la musica, la televisione? Per non dire del teatro anglosassone, naturalmente.
Sherlock HolmesHolmes approda a Verezzi ed è subito grande teatro e grande successo.“Sherlock Holmes e i delitti di Jack lo Squartatore” di Helen Salfas con Giorgio Lupano, Francesco Bonomo, Rocío Munoz Morales, Alarico Salaroli, Emanuela Guaiana, Giada Lorusso, Tommaso Minniti, Giulia Morgani, Emiliano Ottaviani, Stefano Quatrosi, fa centro.Storia ben scritta, grande professionalità drammaturgica, belle scene, splendidi costumi, ricostruzione d’epoca impeccabile, attori bravissimi e ben diretti, nessuna indulgenza a giogionerie mattatoriali, compostezza, asciuttezza, essenzialità. Res severa verum gaudium.La versione che Ricard Reguant, ha adattato e diretto, con freschezza e modernità nei linguaggi, per il Teatro Apolo di Barcellona, è approdata in Italia grazie al progetto artistico di respiro internazionale di Gianluca Ramazzotti.Nella prossime stagioni sarà in tournée nei teatri italiani, ma noi, grazie all’intuizione del Direttore Artistico del Festival Stefano Delfino, abbiamo avuto il privilegio di assistere alla sua prima nazionale.Nel 2018 Sherlock Holmes ha spento 130 candeline ed il successo del personaggio creato da Sir Arthur Conan Doyle non accenna a terminare: 3 serie televisive, film d’azione con attori internazionali, cartoni animati e numerosi studi sulle applicazioni della logica impiegata dall’autore nelle indagini criminali moderne.Nulla di strano quindi che Helen Salfas (nome de plume) abbia creato questa originale pièce di teatro che unisce la fantasia di un personaggio inventato, ma noto in tutto il mondo, come Sherlock Holmes, con la realtà di uno dei più crudeli assassini degli anni della Londra Vittoriana. Se poi pensiamo che Doyle, fu realmente chiamato come consulente da Scotland Yard per manifestare le sue intuizioni e le sue congetture a proposito dell’identità del famoso serial killer, soprannominato Jack lo squartatore, ecco che possiamo accettare come plausibile che il grande detective venga chiamato ad investigare sui misteriosi delitti di Whitechappel, seguendo proprio il sentiero e gli indizi realmente indagati e analizzati dalla polizia in quegli anni.
Spirito allegro
La commedia “Spirito Allegro” di Noel Coward, al suo debutto nel 1941, in piena Seconda Guerra Mondiale, fu criticata per il poco rispetto con cui trattava la morte. Ma il pubblico ne decretò lo stesso il successo, stabilendo addirittura il record di allora di ben 1997 repliche consecutive.Pari successo è stato quello che ha decretato il pubblico estivo della 44^ Edizione della Rassegna Teatrale di Borgio Verezzi ad una divertentissima messa in scena di questa pièce, proposta dalla coproduzione della Bis Tremila s.r.l. e di Molise Spettacoli.Il merito del successo va a Nino Marino, che ne ha adattato il soggetto portandolo dagli originari anni quaranta londinesi all’Italia d’oggi, ed al regista Patrick Rossi Gastaldi, che, forte della sua esperienza televisiva, ha utilizzato i meccanismi comici tipici del cabaret del piccolo schermo, differenziando le provenienze dei personaggi con forti connotazioni regionali. Insomma una riuscitissima operazione di risciacquo dei panni inglesi nel Mediterraneo odierno; con solo qualche eco passatista nella bella scena di Andrea Bianchi, la living room di una casa elegante piena di riferimenti anni ’40, mentre risultano fondamentalmente attuali, con minimi richiami d’epoca, i costumi di Giovanni Ciacci. La storia, originariamente ambientata in Inghilterra, si svolge nella casa di un noto scrittore e sceneggiatore cinematografico, vedovo da anni, interpretato da un superlativo Corrado Tedeschi (una vera forza della natura, ma mai sopra le righe), che qui risiede con la sua seconda moglie, una misurata Antonella Piccolo e la cameriera, una caricaturale Marina Marchione. Maniacale nella documentazione di tutto quello su cui scriverà, il nostro protagonista, da vero professionista perfezionista, accingendosi alla stesura di un lavoro sul paranormale, organizza, con una coppia di amici di famiglia, l’agitato Mario Patané e la calmissima Alessandra Toniutti, una seduta spiritica con una medium, l’esuberante Marioletta Bideri, con il segreto intento di smascherare i trucchi da lei usati. Ma in realtà, durante la seduta, sarà evocato involontariamente lo spirito della prima moglie, una divertente e divertita Debora Caprioglio. Il fantasma nella casa si trova benissimo e non perde occasione per cercare di creare occasioni funeree propizie per ricongiungersi con l’amato consorte. Come è facile immaginare la convivenza delle due donne (l’ex moglie fantasma e l’attuale) è a dir poco problematica. La risoluzione, drammatica, sarà in realtà vissuta dal protagonista con una leggerezza ed un’ironia inconsuete, tanto da far gridare i benpensanti dell’epoca allo scandalo.Il bilancio finale è senz’altro positivo: una commedia ironica e raffinata, mai banale o volgare, piena di colpi di scena con un’evoluzione della trama e un finale certo non convenzionale, ma plausibilissimo. La messa in scena fa della gradevolezza e della fluidità la sua forza. Grande conferma delle capacità di mattatore di Tedeschi, che però non eccede mai nell’istrionico, ben coadiuvato dalla freschezza dell’allestimento “televisivo” (ma qui il termine è un pregio) di Rossi Gastaldi.Risate continue, applausi a scena aperta e chiamate interminabili alla fine per premiare lo spettacolo.Applausi che noi idealmente estendiamo al buon livello di tutti gli spettacoli della rassegna di quest’anno.
SVET
Svet. La luce splende nelle tenebre di Lev Nikolaevic Tolstoj, prodotto dal Teatro Stabile di Genova, presentato in febbraio al Teatro Chiabrera di Savona nella versione italiana di Danilo Macrì, per l’ottima regia di Marco Sciaccaluga, le stupende scene di Jean-Marc Stehlé, i deliziosi costumi di Catherine Rankl, le incantevoli luci di Sandro Sussi e le suggestive musiche di Andrea Nicolini, è uno di quegli spettacoli che riconciliano con il teatro. Ne sentivamo il bisogno.
Diciamo subito che trattasi di capolavoro, e tanto più sottolineamo questo termine volutamente esagerato, “capolavoro”, perchè questo risultato eccelso (purtroppo eccezionale per la scena italiana), è il frutto di un altissimo artigianato che si eleva e diventa arte.Vediamone i presupposti. Il Teatro Stabile di Genova, sotto la direzione Repetti/Sciaccaluga sta proseguendo nella sua duplice linea di ricerca: da una parte la scoperta di grandi testi poco noti o completamente sconosciuti e dall’altra la valorizzazione sul palcoscenico di molti giovani attori. Sono due grossi rischi, assunti con grande responsabilità da chi, alla fine della stagione, deve comunque fare i conti con le cifre, con i conti di cassa, e non può trincerarsi solo dietro i conti artistici.L’azzardo è quello di proporre un’opera monumentale (45 personaggi), che non aveva mai trovato in Italia la via di un grande palcoscenico, affidandone la parte del protagonista ad un misurato, ma anche appassionato, Vittorio Franceschi (ottimo attore, ma non certo con fama da star acchiappa share), scommettere su di un dramma incompiuto, sul quale Tolstoj ritornò più volte tra il 1894 e il 1902, che contiene in sé una forte componente autobiografica. Onore al merito.La storia è quella di Sarìnzov, ricco possidente, che, preso da improvvisi scrupoli religiosi, decide di applicare alla lettera il Vangelo: dividere la sua ricchezza con tutto il popolo a lui vicino. Il suo progetto etico-religioso incontra l’incomprensione della moglie e la dichiarata ostilità del figlio maggiore e degli altri parenti. Ben presto, anche i suoi seguaci, spaventati dalle conseguenze sociali delle sue idee, lo abbandonano o, applicando alla lettera i suoi principi, ne subiscono le tragiche conseguenze. Accade così che il giovane prete che aveva abbracciato con entusiasmo la predicazione di Sarìnzov preferisca tornare nelle braccia della Chiesa ortodossa e che il fidanzato della figlia, il principe Boris, venga arrestato per aver rifiutato di prestare il servizio militare per amore di tutti gli esseri umani ed impazzisca nel manicomio militare. Sempre più insofferente delle convenzioni sociali e dei comportamenti giudicati immorali della sua famiglia, Sarìnzov decide infine di fuggire di casa, creando così le premesse della sua completa rovina. Risolta qui con un sordo colpo di rivoltella.Nella pièce affiorano i motivi che ossessionarono gli ultimi anni della vita di Tolstoj: la concezione evangelica dell`esistenza, l`anticlericalismo, il rifiuto della violenza, il tema della non resistenza al male. Ma soprattutto emerge il dramma dell`impossibilità di far coincidere la teoria con la pratica quotidiana. Insomma, se la luce rischiara troppo le tenebre gli uomini finiscono per esserne accecati.In una sua interessante intervista, il regista Sciaccaluga sottolinea l’attualità della problematica trattata, rileggibile oggi in chiave globale terzomondista. Un bello spunto di riflessione, a sottolineare che, quando l’arte è grande, la problematica è implicita alla storia ed eterna, non si esaurisce nell’attimo circoscritto di un tempo e di un luogo, e non degrada mai a tirata didascalica fine a se stessa.Lo spettacolo è avvincente e se gli applausi a scena aperta non vengono (solo i siparietti dei cambi di scena permettono questo giusto tributo di apprezzamento), è perchè siamo chiamati ad un’attenzione vera, perchè non vogliamo interrompere la magia della finzione poetica che si è creata, non vogliamo disturbare quell’equilibrio interpretativo delicato che gli attori hanno da subito raggiunto, sin dall’aprirsi del sipario, catapultandoci in una scena che si affaccia su un bosco di un secolo fa ed in pieno dramma, senza nessuna manovra di avvicinamento graduale alla discoperta del tema.Mitridatizzati dagli spettacoli governati dall’effettaccio per strappare l’attenzione e l’applauso, ci scopriamo irresistibilmente attratti dal Teatro colla T maiuscola, dove c’è un autore, e che autore, una storia, dei personaggi compiutamente descritti dall’essenzialità di tante vicende che convergono in una sola grande storia, una problematica, un drammatico finale catartico. Ci mancava. E così viene anche infranto il tabù del tempo ridotto di attenzione causato dalla scansione pubblicitaria televisiva. Tre ore di spettacolo e non un solo minuto che sfugga, non una sola battuta che vada persa. Non vi è mai un personaggio sopra le righe, un mattatore che gigioneggi od ammicchi al pubblico per tirare l’applauso. La coralità regna sovrana, molti coprotagonisti si adattano ad interpretare molti ruoli, a riprova della veridicità del monito stanislavskiano “non ci sono piccole parti, solo piccoli attori”.Citiamoli doverosamente tutti, lo meritano:Vittorio Franceschi (Nikolaj Ivanovic Saryncev); Orietta Notari (Mar’ja Ivanovna Sarynceva, sua moglie; una contadina , moglie del contadino Zjabrev; ); Alice Arcuri (Ljuba, figlia dei Saryncev); Vito Saccinto (Vanja, figlio dei Saryncev; un contadino; uno scrivano dell’esercito); Fabrizio Careddu (Stepa, figlio dei Saryncev; un ufficiale della gendarmeria); Lisa Galantini (Aleksandra Ivanovna Kochovceva, sorella di Mar ’ja Ivanovna); Federico Vanni (Petr Semenovic Kochovcev, suo marito; Ivan Zjabrev, un contadino; un generale); Fiorenza Pieri (Lizan ’ka, figlia dei Kochovcev, Malaska, figlia del contadino Zjabrev); Fiammetta Bellone (la principessa Ceremsanova); Flavio Parenti (Boris, figlio della Ceremsanova); Stefania Pascali (Tonja, figlia della Ceremsanova); Gianluca Gobbi (Vasilij Nikanorovic, un giovane prete; Aleksandr Michajlovic Starkovskij, fidanzato di Ljuba); Massimo Cagnina (Padre Gerasim, un prete; un colonnello; Sergej Nikolaevic Aksakov);Maurizio Lastrico (domestico dei Saryncev; Sevast’jan, un contadino; un falegname; il primario di un ospedale militare, reparto malattie mentali); Pier Luigi Pasino (domestico dei Saryncev; Ermil, un contadino; un cappellano; Aleksandr Petrovic); Maurizio Taverna (un notaio, guardiano del reparto dell’ospedale militare); Fabrizio Montalto (l’attendente di un ufficiale della gendarmeria); Diego Paoli (guardiano del reparto dell’ospedale militare); Alessandro Piccardo (un contadino); Annalisa Recchioni (domestica dei Saryncev); Desirée Tesoro (la njanja dei Saryncev).
Vita di Galileo
Giovanni Testori, uno dei massimi scrittori contemporanei italiani, fondando il 29 ottobre 1983 il Teatro degli Incamminati, coproduttore oggi, insieme al Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, della pièce brechtiana Vita di Galileo, in programma al Teatro Chiabrera di Savona, per la sobria regia di Antonio Calenda, le essenziali ma dignitose scene di Pier Paolo Bisleri, i costumi funzionali di Elena Mannini, le weilleggianti musiche di Germano Mazzocchetti, le stupende luci di Gigi Saccomandi e la magnifica interpretazione di Franco Branciaroli, così si esprime "...si chiama Gli Incamminati, è una cooperativa che prende il nome da una celebre Accademia d'Arte del Seicento bolognese. Ma non è il richiamo a quei pittori a interessarci, quanto l'indicazione programmatica contenuta nel sostantivo: di uomini in cammino verso la fondazione di una forma teatrale dell'oggi." Quanto di questo manifesto programmatico è stato realizzato in questi 24 anni? Certo molto fu fatto quando, lui vivente, il grande teatro di Testori era il fulcro del Piccolo Teatro (La Maria Brasca), di Visconti (Rocco e i suoi Fratelli, L'Arialda, La Monaca di Monza), del Salone Pier Lombardo di Franco Parenti (Ambleto, Macbetto, Edipus), della Compagnia dell'Arca (Interrogatorio a Maria, Factum Est), del Teatro degli Incamminati (Post Hamlet, Erodiade, In Exitu, con la memorabile rappresentazione alla Stazione Centrale di Milano, Confiteor, Verbo', Sfaust, Sdisore'), della Compagnia dei Magazzini di Tiezzi e Lombardi (I tre lai, postuma). C’era sperimentalismo, rottura dei consueti equilibri linguistici, rivisitazione dei temi religiosi, osservati mediante il dualismo tra spirito e corpo. Era l’epoca in cui, si ripercorreva un sodalizio tra autore e compagnia, che è essenziale perchè si abbiano momenti alti di teatro, si pensi a Molière e la nascente Comédie Française, al Teatro d’Arte di Stanislavskij e Cechov, a Pirandello ed alla sua Compagnia, al Berliner Ensemble e Brecht stesso. Ma dopo la sua scomparsa? Questo secondo me è il punto su cui ragionare, dopo aver visto lo spettacolo. Ragionamento che ho cominciato a fare da subito, fin dal ritorno a casa, in compagnia di molti spettatori, approfittando della corsa sul comodissimo Teatrobus, messo a disposizione gratuitamente dall’ACTS (che certo va lodata per questo, almeno una volta). Non si tratta solo di un fatto formale e linguistico, e già di ciò ce ne sarebbe abbastanza, ma sostanziale. La forma-teatro a cui abbiamo assistito (in quella bella serata di teatro, vogliamo sottolineare subito a scanso di equivoci), sta molto più nella scia della tradizione del grande teatro mattatoriale di quanto non fosse all’origine l’intenzione di Brecht. Del teatro politico, di quello epico, della drammaturgia didascalica e della recitazione straniata, in cui solo la ragione viene sollecitata e guardata con sospetto la catarsi dell’ingannevole emozione, un tempo accolti e teorizzati come grandi momenti fondativi di una nuova estetica teatrale, comunista ed antiborghese, poco è rimasto, e ciò che è sopravvissuto è stato abbondantemente rimasticato e digerito. Sopravvive qualche didascalia parlata, il siparietto cantato, insomma tutto quello che, in maniera formale ed indolore, è stato acquisito dal fare teatro contemporaneo. Così inteso, Il Galileo, è oggi diventato un classico, e se è trattato con i guanti e la lente dell’entomologo, perde gran parte della sua forza dirompente. Il rischio di una omologazione è lì di fronte a noi. Un po’ come avviene per i brani musicali evergreen della musica leggera, o per gli standard della musica jazz. Si tratta di brani con i quali ci si cimenta e se ne dà la propria versione, per far sì che i fans apprezzino l’arrangiamento o la freschezza dell’improvvisazione virtuosistica. Il Galileo, così ridotto, resta una delle prove con cui il grande attore si può, quindi si deve, cimentare. Fin qui tutto bene. Infatti, oltre alla straordinaria prova d’attore di Franco Branciaroli, risultano molto bravi e simpatici Giulia Beraldo nella parte di Andrea Sarti bambino e Giorgio Lanza in quella di Sagredo; ma di buon livello è certamente tutto il cast, composto da Lucia Ragni (Signora Sarti), Alessandro Albertin (Procuratore), Nicole Vignola (Virginia, sua figlia), Giancarlo Cortesi (Cardinale Barberini), Daniele Griggio (Cardinale Bellarmino), Tommaso Cardarelli (Frate Fulgenzio), Jacopo Venturiero (Andrea Sarti giovane) Lello Abate (Padre Cristoforo Clavio), ben amalgamati, senza che nessuno sia mai sopra le righe. Di questo va dato merito al regista Calenda. Ma poi? Cosa serve per far sì che sopravviva quella carica dirompente che è stato Il Galileo di Brecht? La risposta è semplice e chiara, anche se la sua attuazione è molto difficile. Serve una dirompente invenzione registica, che sappia restituire al pubblico d’oggi, nelle forme teatrali dell'oggi, la stessa densità di emozioni ed innovazioni che fu provata dal pubblico di allora, che comprese subito la portata epocale dell’operazione di Brecht. Questo, oggettivamente, nello spettacolo manca e, di ciò, ci sentiamo incontentabilmente orfani. Un teatro a tesi non basta a riempire la scena, per discutere è meglio un dibattito. Anche se si tratta di tesi importanti, in cui vive il conflitto tra scienza e potere, tra etica e ricerca, tra responsabilità civile e salvezza personale. E, tutto sommato, sapere se, in una precedente versione, Brecht assolvesse o meno il suo Galileo per l’abiura, è la cosa meno interessante su cui disquisire. “Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”, direbbe Fabrizio Faber De André. Su cosa, allora, mi sono sentito coinvolto? Per me, quello che resta della serata è la straordinaria dimensione umana di Galileo (metafora di ogni uomo che onestamente sente l’urgenza di confrontarsi col mistero), un geniale eterno ragazzo curioso, che scopre per il gusto di scoprire, che prova a fare scienza con la stessa serietà con cui un ragazzo gioca con altri ragazzi, rispettando fin che può le regole del gioco. Ma se il gioco si fa duro, da vero duro, capisce che le regole fino a quel punto usate, sono insufficienti. A giocare così non c’è più gusto, e ne inventa delle altre, migliori. E si offende se, sapendo che le sue nuove regole sono le migliori possibili, scopre che altri preferiscono quelle vecchie, che sono errate, con le quali ci si diverte molto meno ed in modo sbagliato. Per lui questo è una mancanza di onestà, quella di chi vuole vincere a tutti i costi, anche barando, per ribadire che è lui il capo, e se non gli dai ragione ti mena. Galilei sconvolge tutto l’ordine costituito, ma nel suo entusiasmo non se ne avvede fino in fondo. Ha la forza dell’ingenuità di dire che il re è nudo, ma senza alcuna consapevolezza che si tratti di qualcosa di veramente delicato, di politicamente scorretto. Ma, il vero capolavoro, è l’abiura, motivata con la paura della punizione, del dolore fisico che gli possono procurare gli strumenti di tortura che gli vengono mostrati. Sta in castigo come un ragazzo in punizione, a cui però gli si porta di nascosto da mangiare, perchè è discolo, ma in fondo è di buon cuore. Galilei l’ha fatta grossa, ma non è del tutto consapevole di questo. A lui interessa la fisica, come un gioco geniale e se, mentre gioca, la palla scappa dal campo e spacca un vetro, lui dice di non essere colpevole, perchè non l’ha fatto apposta, ma soprattutto perchè, probabilmente, era la finestra che non doveva stare lì. Se la fisica sconvolge la teologia, che i teologi la risistemino. E che diamine, sono lì per quello. D’altronde quella teologia disturba la sua fisica. Lui la fisica l’ha fatta e disfatta tante volte, tutti i giorni, che barba deve essere la teologia, se ogni giorno non c’è niente di nuovo da scoprire. Ma, in realtà, nella teologia c’è sempre tutto da scoprire, ogni giorno un pezzo in più, un pezzo nuovo. La condanna, allora, non è verso la Chiesa, strumentalmente ridotta da qualcuno solo ad ottuso strumento di potere, ma verso chi, anche al suo interno, condanna chi pensa che le teorie provate da Galileo possano insidiare il proprio status quo. La condanna è verso chi ha l’ottusità di pensarsi come un corpo immobile, (mentre tutto gira), che ha come credo quello di mantenere tutto il più fermo ed immutabile possibile. Questa è la vera dimensione del peccato. Dio va continuamente riscoperto, reinventato, non è la misura dell’inconoscibile umano, ma è la risposta al suo bisogno di confrontarsi col Mistero, cioè del conoscibile infinito, della enormità infinita del conoscibile. Se Dio è visto come un dato acquisito una volta per tutte, con un recapito che sta oltre le sfere celesti rotanti di cristallo a cui sono appesi i mondi, egli diventa, allora, misura della nostra infinita pigrizia e paura. Il nuovo peccato originale, in quanto si sceglie, un’altra volta, di fare a meno di lui, di poter fare da soli senza di lui. Galileo ha, nel gusto della scoperta scientifica (o teologica), l’impeto di un bambino che corre felice in una pianura sterminata. Lo fa perchè vuole conoscerla e la percorrere perchè non può fare a meno di scoprirla. Questo rimprovera Galileo ai teologi che non vogliono guardare nel telescopio: la perdita del desiderio della continua scoperta (di Dio e del Cosmo), misura certa della fede (in Dio e nella Scienza). In ciò Galileo è un vero uomo di fede, che nel cosmo sente la voce di Dio che lo chiama a scoprirlo. Ecco perchè dice di essere figlio della Chiesa; quei falsi e pigri teologi, al massimo ne sono figliastri. Galilei non è, allora solo un grande fisico, ma è anche un grande teologo, poiché avvicina all’uomo il recapito del Dio lontano e gliene dà uno assai più coinvolgente: nel cuore di ogni uomo.
Vite private
Vite private (Private lives), andato in scena nella 46^ edizione del Festival Teatrale di Borgio Verezzi, nasce da quel genio poliedrico che fu Sir Noël Peirce Coward (compositore di canzoni, produttore, commediografo, attore e regista britannico). Abbiamo assistito alla prima nazionale della messa in scena fattane, in coproduzione, per La Contrada Teatro Stabile di Trieste e The Big One Production, dal regista di Giovanni De Feudis, con musiche originali di Alessandro Mancuso, nell’interpretazione maiuscola dei protagonisti Corrado Tedeschi (Elyot) e Benedicta Boccoli (Amanda), ben assecondati da Emy Bergamo ed Andrea Garinei. La storia è elementare. Siamo in una Francia stile Costa Azzurra, anni Trenta, anglo-olografica, dove due facoltosi ex coniugi, divorziati da cinque anni, si sono entrambi recentemente risposati. Il destino vuole che per la loro nuova luna di miele abbiano prenotato nello stesso albergo ed alloggino in camere adiacenti, con il terrazzo in comune. Il loro disappunto iniziale si trasforma inaspettatamente in gioia quando, dopo l’inevitabile lunga serie di comici eventi ed esilaranti colpi di scena, scoprono di essere ancora innamorati. Conseguenza? Fuga a Parigi, con inseguimento dei rispettivi coniugi, che in questa avventura scoprono, tra l’altro, di avere molto in comune. La chiusura è agrodolce: nonostante il ritorno di fiamma, nessuno dei due è realmente cambiato, litigi, rancori, incomprensioni… Chissà se il ciclo si ripeterà all’infinito? Maestro di ogni più sottile sfumatura dei segreti scenici, il teatro di Coward è teatro attoriale per eccellenza, fatto per dare la possibilità a due grandi mattatori (e a due ottimi comprimari), di darsi in pasto al pubblico con una voluttà esibitiva intensa, ma che mai supera il buon gusto di un erotismo raffinato ed alluso, confinando sempre nell’angolo ogni eccesso di pruderie, a cui molto cinema e tv ci hanno ormai abituato. Merito anche di una prosa arguta, spigliata, che mette abilmente in mostra, in modo compiaciuto, un quadro della corruzione dell'alta società attraverso un fuoco di sbarramento di battute al vetriolo. Ma Coward non cade mai nel facile tranello della battuta brillante fine a se stessa, fatta per conquistare la pancia del pubblico più dozzinale. C’è uno spessore insospettato dietro la lineare leggibilità della sua commedia di costume che la nobilita quasi a commedia di genere: quella delle invidiabili vite agiate delle coppie snob del periodo interbellico del secolo scorso, fatte di una leggera piacevolezza che in apparenza non richiede eccesso di sforzo interpretativo. Ma non è così ed il pubblico, che ride di gusto per due ore ininterrotte, va comunque detto, ci si trova incagliato dentro. Molte coppie hanno problemi analoghi, anche se il portafoglio titoli che possiedono è certamente assai più ridotto di quello dei due protagonisti. Chi ha detto che quando si ride molto si pensa poco, ha preso, in questo caso, un grande abbaglio. E’ forse un caso che tra i registi che hanno tratto film dalle commedie di Coward, ci siano Alfred Hitchcock, David Lean, Ernest Lubitsch, Stephan Elliott… ecc.?
LA PAROLA AI GIURATI
Il teatro finalmente. Anzi il Teatro. Quello con la t maiuscola, quello che si dovrebbe scrivere e fare abitualmente ed invece sembra così difficile da realizzarsi, almeno in Italia. A questo abbiamo assistito al Teatro Comunale Chiabrera di Savona in cui era programmata la pièce “La parola ai giurati” (Dodici uomini arrabbiati) di Reginald Rose, prodotta dal teatro Stabile d’Abruzzo e dalla Società per Attori, con la regia e l’interpretazione di Alessandro Gassman, coadiuvato da altri undici ottimi attori, Emanuele Maria Basso, Fabio Bussotti, Nanni Candelari, Paolo Fosso, Manrico Gammarota, Giulio Federico Janni, Massimo Lello, Sergio Meogrossi, Giancarlo Ratti, Giacomo Rosselli, Emanuele Salce. Non ci stupisce affatto che lo spettacolo abbia vinto il Biglietto d’Oro Agis-Eti 2007-8 come campione d’incassi e presenze, il Premio nazionale critica teatrale 2008 e il Premio Golden Graal 2008. Segno che quando il teatro è valido e non un vuoto esercizio narcisistico od intellettualistico il pubblico fa la fila per vederlo. Abbiamo apprezzato tutto della lunghissima (tre ore di rappresentazione) ed avvincente serata (mai un solo attimo di distrazione), era tanto tempo che non ci succedeva. Cominciamo dalla trama, scritta da un autore in stato di grazia più di mezzo secolo fa, che non dimostra neanche lontanamente i cinquanta e passa anni di età, grazie anche alla nitida traduzione di Giovanni Lombardo Radice. Assai semplice e lineare, comprensibilissima da tutti, colti ed ignoranti. La storia si svolge in una caldissima New York, il 15 agosto 1950. Una giuria popolare composta da dodici uomini di diversa estrazione sociale, età e origini, è chiusa in camera di consiglio per decidere del destino di un ragazzo ispano-americano accusato di parricidio. Devono raggiungere l’unanimità per mandarlo a morte e tutti sembrano convinti della sua colpevolezza. Tutti ad eccezione di uno che con meticolosità e intelligenza costringe gli altri giurati a ricostruire nel dettaglio i passaggi salienti del processo e, grazie a una serie di brillanti deduzioni, ne incrina le certezze, insinuando in loro il principio secondo il quale una condanna deve implicare la certezza del crimine al di là di ogni ragionevole dubbio. Fra violenti contrasti, dubbi, ripensamenti ed estenuanti discussioni, l’unanimità sarà raggiunta e l’imputato verrà dichiarato non colpevole. A fare da cornice a tutto ciò le cinematografiche scene di Gianluca Amodio che ci ricordavano il film di Sidney Lumet tratto da questa pièce, i realistici e funzionali costumi di Helga H. Williams, le coinvolgenti musiche jazzistiche di Pivio & Aldo De Scalzi, le suggestive luci del light designer Marco Palmieri ed i puntualissimi effetti sonori del sound designer Hubert Westkemper. E dentro gli attori, tutti superlativi, un vero pacchetto di mischia, compatto e funzionale. Mai un eccesso, un effettaccio, una gigioneria, un ammiccamento, ma sempre lucida consapevolezza, precisione di enunciazione, nitidezza di eloquio. Un affiatamento magnifico che risultava così coinvolgente per il pubblico da non permettergli un solo applauso (e ci sarebbero stati molti momenti che lo meritavano), per la preoccupazione di “disturbare” con esso il meraviglioso meccanismo aristotelico di unità di tempo, di luogo e di azione che avevamo di fronte, di essere un granello di sabbia inopportuno in un oliatissimo orologio. Avevamo paura di perderci anche una sola battuta, un contraddittorio contrappuntistico di questo sapiente puzzle di contrasti, che si delineava via via con la determinazione di una complessa e calibratissima azione-reazione, come se le singole vicende di ogni personaggio fossero la parte armonica di un tutto, le traiettorie ineludibili di un grappolo di bocce scontrate dal pallino dentro un fumoso tavolo di biliardo. Che tutte le palle andranno in buca salvo il pallino, lo sappiamo fin dall’inizio, ma non è per questo che si guarda il gioco. Lì conta il come, qui anche il perché. Ne “La parola ai giurati”, l’impianto drammaturgico si basa sullo svolgimento di un dramma giudiziario. Ma in realtà emerge subito la possibilità di portare alla luce i pregiudizi e le false certezze che caratterizzano il comportamento dei giurati e che affiorano nel momento in cui devono assolvere il compito più difficile per un uomo: quello di decidere della vita di un altro uomo. La vicenda è incentrata su due capisaldi del sistema giuridico anglosassone: la presunzione di innocenza e la dimostrabilità della sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. In un’epoca in cui il mondo è afflitto da ideologie contrastanti che si nutrono di assolutismo e che spesso scadono a pregiudizi, il “ragionevole dubbio” è una preziosa arma di difesa. Non a caso lo spettacolo ha avuto il patrocinio di Amnesty International. Ecco allora emergere il ruolo del protagonista: l’architetto. Chi è questo architetto, se non un angelo custode del bene, sepolto nell’animo delle persone? Chi è se non un messaggero di speranza, un titano della certezza, del “si può fare”, una persona che ti viene incontro e ti aiuta a risollevarti e non ti accusa perché sei diventato malvagio? Cosa è la corruzione dell’anima se non aver creduto che per vivere sia necessario nascondere questo bene come una debolezza nel tuo intimo? Dopo lunga e sofferta battaglia il lato migliore di ogni giurato emerge e 12 uomini “arrabbiati” (cioè fragili) diventano 12 uomini “decisi” (cioè solidi), pronti a fare giustizia, cioè a mandare assolto quello che potrebbe “anche” essere un assassino. Meglio così. Molto meglio. Si chiama lieto fine tutto ciò? Forse è molto di più, anche se facciamo fatica ad ammetterlo, e più che mai fatichiamo come matti ogni giorno se tentiamo di farlo. Applausi liberatori e di gratitudine al termine, standing ovation, abbiamo contato almeno 30 chiamate ed un battimano ininterrotto per almeno 10 minuti. Chapeau.
Le allegre comari di Windsor
Che piacere assistere ad uno spettacolo colto e popolare, fresco e frizzante, spigliato, ma che sa al tempo stesso far meditare, che riempie gli occhi di visioni colorate e chiaroscurali e le orecchie della modernità di arie che, a bella posta, sanno di antico (ma non vecchio si badi bene).Queste sono alcune sensazioni che hanno colpito gli spettatori, alcuni dei quali giovanissimi, in virtù del fatto che lo spettacolo era inserito nell’ormai consolidato abbonamento studenti, una best practice da tutelare assolutamente. Ed è puntuale, ma piacevole, responsabilità di un recensore riportarle.Si tratta dello spettacolo di apertura della Stagione di Prosa del Civico Teatro G. Chiabrera di Savona, Le allegre comari di Windsor, di W. Shakespeare, nella traduzione e adattamento di Fabio Grossi (che ne firma anche la regia) e Simonetta Traversetti, con protagonista Leo Gullotta, sostenuto da Alessandro Baldinotti, Paolo Lorimer, Mirella Mazzeranghi, Fabio Pasquini, e con Rita Abela, Fabrizio Amicucci, Valentina Gristina e Cristina Capodicasa, Gerardo Fiorenzano, Gennaro Iaccarino, Federico Mancini, Giampiero Mannoni, Sante Paolacci, Sergio Petrella, Vincenzo Versari. Belle, tra il naturalistico ed il simbolico, le scene ed i costumi di Luigi Perego, sapientemente illuminate da Valerio Tiberi, vivaci le musiche di Germano Mazzocchetti che ben assecondano le coreografie di Monica Codena.La commedia narra una società, che vive sotto l’occhio della Corte, dove lo scherno reciproco è l’attività più praticata. La più svariata umanità entra nella vicenda: amanti, guasconi, burocrati, mariti gelosi, golosi mercanti, mercenari infingardi. Si alternano momenti comici, grotteschi e romantici, ma su tutti trionfano le comari che circondano il protagonista, Sir John, il gigantesco Falstaff, “una balena con la pancia piena di barili d’olio”, guascone, cialtrone, crapulone. Lo spettacolo che ha avuto la prima nazionale al Teatro Romando di Verona nell’importante Festival Shakespeariano dell’Estate Teatrale Veronese, è stato prodotto dal Teatro Eliseo di Roma ed ha visto Leo Gullotta affrontare per la prima volta Shakespeare in un ruolo da protagonista, vestendo i panni “non proprio fatti su misura” di un Falstaff, comico ma intriso di elementi tristi quanto amari.Una prova magistrale applauditissima che si aggiunge a una carriera costellata di grandissimi successi: due Nastri d’argento (1984 e 2002) e un Davide di Donatello (1987) nel cinema, e recentemente il Premio Flaiano e il Premio Govi, entrambi alla carriera.
MISURA PER MISURA
E’ mezzanotte passata da un pezzo quando conquisto l’aria aperta di Corso Italia, metafisicamente deserto. Sono appena uscito dal “forno luciferino” del Teatro Chiabrera di Savona, che con quella temperatura avrebbe dovuto ospitare più giustamente i decolleté delle belle signore (non se ne videro, piuttosto qualche cachemirino stile “agiata professoressa”). Anche questo è segno dei tempi. Dove sono le/i wildiane/i frequentatrici/tori di teatro, che lì vanno (nell’ordine) per vedere chi c’è, come sono vestite le altre signore, lo spettacolo, ma, soprattutto, per essere viste? Di stravagante ci fu qualche improbabile montatura di occhiali maschili e qualche codino imbiancato, ultima bandiera di un improbabile tasso testosteronico di lontana giovinezza. C’é voglia di cultura “vera” nel foyeur, e la mondanità, anche in sedicesimo come quella savonese, come il verbum veltronianum ci insegna, è il suo miglior suggello. C’è da chiedersi, allora, “Il misura per misura” di William Shakespeare per la regia e l’interpretazione di Gabriele Lavia questa voglia di cultura l’ha soddisfatta? Ci è stato spiegato dal simpatico ed accorto direttore della nostra massima istituzione culturale, che la scelta di inserire in cartellone sempresempresempre qualche grande classico è vista dagli amministratori come una sorta di dovere morale educativo per il popolo, specie quello più giovane (poi, del resto, di tutto un po’). La cultura, che fa volare Savona, è anche questo? Si tratta di un jet che può volare dove vuole o di un parapendio che si barcamena alle correnti ventoso-modaiole di quel che passa il convento teatrale italiano? Che con Lavia non si trattasse di un volo low cost fu subito chiaro. A questo penso camminando lungo il viale, mentre le parole di S. Matteo mi rimbombano nella mente (“con la misura con la quale misurate sarete misurati”) e ripercorro a memoria la lunghissima serata teatrale, dove della vivace traduzione di Alessandro Serpieri, nulla è andato sprecato, pur a dispetto di una struttura drammaturgica oggettivamente fragile, incerta tra la commedia ed il dramma. Nulla è stato tagliato, neppure il riepilogo degli eventi, quasi ad imitare lo stile delle telenovelas, se qualcuno si fosse distratto ha la possibilità di recuperare senza dovere chiedere al vicino di posto. Come risolve questa indefinitezza drammaturgica Lavia? Facendo due scelte precise: identificare il nodo centrale della pièce con la tematica sessuale, vista come pulsione profonda, sottosuolo che genera ogni azione umana, metafora del peccato e della corruttibilità umana, e dare consistenza scenica a questa indefinitezza libido-magmatica usando un pastiche di generi, in cui, senza soluzione di continuità, convivono il feuilleton, il thriller, l’horror, il cabaret, il musical quando non addirittura il reality show della diretta televisiva dal tribunale. Tra Freud e l’operetta, viennesi naturalmente, pour épater les burgeois (che invece sono di bocca buona e tutto si bevono goduti, basta che sopra ci sia il logo dello stilista di razza). Aprendo l’album fotografico trenetiano del come eravamo, la cosa appare ancora più chiara: que reste-t-il des tous beaux jours? Une foto, une vielle foto de ma jeunesse, quando l’avanguardia era avanguardia ed i classici erano classici, ed anche la rivisitazione avanguardista dei classici era tale. Lavia chiude l’album della rivisitazione di un classico, e dà il là alla rivisitazione dell’avanguardia che un dì rivisitò i classici. Se di operazione culturale si trattò, fu duplice: la riproposta del repertorio classico e quella del repertorio avanguardistico. Se questo era l’intento, la scelta di portare questo spettacolo al Chiabrera fu due volte saggia ed i soldi pubblici furono ben spesi (quelli del Teatro di Roma diretto da Giorgio Albertazzi, che finanziò l’allestimento per la Compagnia Lavia-Anagni e quelli dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Savona che lo comprò). E adesso siamo qui. Ci accoglie in sala una spettacolare scena a pannelli mobili firmata da Carmelo Giammello che sta a metà strada tra la Vienne Sezession e Blade Runner, i cui movimenti creano i cento luoghi nei quali si snodano gli attori, pirotecnicamente vestiti con i costumi di Andrea Viotti, tra lucenti impermeabili e guepière, tra grisaglie ipocrite del potere perbenista e tonache, tra Boccaccio, Matrix, Weimar e Fassbinder. Si inizia con un rave party, condotto dal nano, e scusate se è poco direbbe Petrolini, Abortroione (Andrea Nicolini), e ballerine, nel premiato bordello di Madama Strafatta Sfondata (Rita Di Lernia), un nome una garanzia, dove una non raccomandabilissima fauna di fantasmi di lussuria quotidiana metropolitana, rappa il tormentone “stupidi e folli”, scuotendosi vigorosamente sulle coreografie punk metallare di Luca Tommassini, al ritmo delle musiche di Andrea Nicolini, investiti dal cupo disegno delle luci di Giovanni Santolamazza. Mais c’est qu’un debut. Arriveranno la metaforica stazione sotterranea della metropolitana dismessa con tanto di ventola di aerazione, un gabinetto pubblico con veri pissoir, una galera, una chiesa, un gabinetto legale, un convento, ecc. ecc. La storia in breve è quella del Duca di Vienna (GabrieleLavia) che incapace di combattere l’immoralità del suo popolo lascia il potere all’apparentemente integerrimo Vicario Angelo (Lorenzo Lavia), ma poi, travestito da frate, assisterà alle degenerazioni che derivano da una cieca interpretazione delle leggi, unita al macchiarsi delle stesse colpe che si vogliono con rigore punire negli altri. Happy end finale con quattro matrimoni e nessun funerale. Lavia corre e fa correre i suoi attori sul filo dell’acrobata, tra genialità e rischio di scivolate kitsch. Ma con quali risultati? Non sempre riusciti se si pensa all’imposizione di certe sgradevoli vocette meccaniche, che fondono il disarticolato ronconese all’automa Tic del vecchio Carosello (“or che bravo sono stato posso fare anche il bucato?”) o addirittura al Franz del primo Paolo Villaggio (“chi fiene poi atesso?”). Talvolta appare pateticamente caricaturale l’imposizione di un cliché, come per il Bargello (Marco Cavicchioli), che costringe in una tenuta sadomaso uscita dal Rocky Horror Picture Show e lo fa atteggiare a dark queen. Scopriremo solo alla fine che ha gusti rigorosamente etero avendo ingravidato una prostituta e che sarà costretto a sposarla (chissà la soddisfazione del nascituro di essere figlio di cotanta coppia). Ma se questi inutili eccessi fanno emergere la faccia nascosta dell’avanguardia antropofaga, che di se stessa si nutre e nulla risparmia, naturalmente questo rischio non lo corre Lavia, che alterna con disinvoltura tre distinti livelli di recitazione: uno con cui fa parlare il Duca, il quale in contrasto con la mise manageriale sobrio-elegante stile Armani, usa una sorta di rapidissimo linguaggio “a cottimo”, con ritmi espressivi così elevati di velocità e segmentazioni della frase tali per cui, a volte, risulta difficile capirlo; un altro quando interpreta con abito talare parrucca e zucchetto un bonario frate, tentando, in verità senza troppo riuscirci, anche la via della comicità, che non è troppo nelle sue corde, a metà strada tra don Matteo e Bud Spencer; ed infine, il terzo, che è quello del grande declamatore classico, quando si compiace di dare spessore ad una frase, fosse anche in apparenza la più insignificante. E qui (ma non altrove) la scommessa dell’applauso è vinta. Ma, a volte nelle pieghe più riposte dell’avanguardia, onestamente più emule dell’oggetto a lacaniano che shakespeariano, si trova la perla. Come quando il giovane, ma già grigiocrinuto Angelo, in preda ad un delirio erotico per la novizia Isabella (Federica Di Martino), manifesta, con la sedia su cui essa è stata fino a poco tempo prima seduta, un transfert feticistico giocando con essa, tenendola in equilibrio e rischiando di lasciarla cadere, per abbracciarla infine in un amplesso di inappagato possesso. Metafora della vita e dell’attore che tiene in pugno il pubblico ed in ogni istante rischia il crollo per il piacere di entrambi. Hanno assecondato il disegno di Gabriele Lavia con encomiabile disciplina, oltre ai già citati attori, anche Pino Ammendola (Gomito), Fabio Massimo Amoroso (Frate Pietro), Tamara Balducci (Giulietta), Pietro Biondi (Escalo), Francesco Bonomo (Lucio), Gianni De Lellis (Pompeo), Luca Fagioli (Chiappa), Alessandro Riceci (Claudio), Giorgia Salari (Mariana), Faustino Vargas (Schiuma). Completano il cast: Claudio Ammendola, Alessandro Cangiani, Giovanna De Maio, Sidi Diop, Francesco Laruffa, Viviana Lombardo, Matteo Micheli, Fabrizio Vona. Il viale è finito. In fondo c’è il mare. Aspettiamo il via per un altro giro di giostra, en attendent il brechtiano Galileo di Branciaroli.
E’ un magnifico spettacolo quello andato in scena in occasione dell’apertura della stagione di prosa del Teatro G. Chiabrera di Savona. Prodotto dalla Fondazione Toscana Spettacolo e dalla Compagnia Lavia con il Teatro di Roma, “Molto rumore per nulla” di William Shakespeare, nella nitida traduzione di Chiara De Marchi per la regia di Gabriele Lavia, riesce nell’intento di riproporre tutta la grandezza del grande teatro coniugandola però, sapientemente, con la passione e la freschezza di un gruppo di giovani, capitanati da un grande Lorenzo Lavia, che si compiace di mostrare il divertimento degli attori nel recitare, come se si trattasse di una festa scenica a cui tutti siamo invitati. Semplice la trama, ambientata nella solare città di Messina, dove il ricco Leonato accoglie nella sua magione il principe d’Aragona don Pedro di ritorno dalla guerra. L’atmosfera gaia e leggera dell’estate mediterranea fa da sfondo agli amori tra il giovane Claudio e la dolce Ero di cui sono imminenti le nozze, e tra i litigiosi Beatrice e Benedetto. Il “molto rumore” non è che l’eco dei loro battibecchi, strumento per nascondere il reciproco interesse. Ma don Juan, geloso del favore che Claudio gode presso don Pedro, fa di tutto per screditare Ero e impedirle così di sposare il suo amato. Nulla però potrà impedire all’amore di trionfare sui cattivi sentimenti che saranno giustamente puniti. Lo spettacolo è arricchito da tanta musica e tante canzoni, sapientemente composte ed eseguite da Andrea Nicolini, tutta musica dal vivo, pianoforte, flauto e chitarra in scena, e naturalmente le voci dei ragazzi che recitano, danzano, cantano e suonano, nelle essenzialissime scenografie di Gabriele Lavia stesso, ridotte a pochi arredi scenici, vestiti dai costumi di Andrea Viotti, a volte indossati, a volte solo appoggiati e a volte trascinati da attori in abiti di tutti i giorni, a seconda degli stati d’animo, a seconda della “maschera”, del ruolo, dell’apparenza. La forza scenica è data dalla compattezza del gruppo attoriale composto da Tamara Balducci, Pietro Biondi, Francesco Bonomo, Alessandro Cangiani, Claudia Crisafio, Silvia De Fanti, Gianni De Lellis, Federica Di Martino, Luca Fagioli, Igor Horvat, Lorenzo Lavia, Viviana Lombardo, Andrea Nicolini, Salvatore Palombi, Alessandro Riceci, Daniele Sirotti, Andrea Trovato e Faustino Vargas. Tre ore di spettacolo, retto con energia e brio, anche se alcune esagerazioni caricaturali potevano essere evitate, come quelle che caratterizzano la ronda notturna. Tre ore di piacere teatrale puro che sono volate via leste, perché finalmente si è ascoltato un testo shakespeariano detto per farlo capire in tutta la sua bellezza, senza inconsuete ed immotivate accelerazioni o stranianti ed arzigogolati rallentamenti, privo di quelle cesure volute solo per renderlo incomprensibile, cioè per fare gridare gli sprovveduti al miracolo del “grande dicitore”. Insomma un Lavia regista “vero” al servizio di un testo “vero” per attori “veri”, non narcisisti dandy al servizio del non detto e del non dicibile.
La nuova stagione di prosa 2011-2012 del Teatro Comunale G. Chiabrera di Savona ha aperto con Quello che prende gli schiaffi di Leonid Nikolaevic Andreev, grande drammaturgo russo amato da Stanislavski e Mejerchol’d, i due padri nobili del rinnovamento teatrale del novecento, che fu subito un grandissimo successo nella Russia e quindi nel mondo, anche grazie alla versione cinematografica (He Who Gets Slapped), un film muto del 1924 diretto da Victor Sjöström e interpretato dal Lon Chaney. Allestito dalla Compagnia MAURI-STURNO, che festeggia il trentesimo anno della sua fondazione, è stato messo in scena con la traduzione e l’adattamento di Glauco Mauri che ne firma anche la regia. Il testo narra l’improbabile storia di un uomo, un giorno famoso e potente che, in seguito ad una delusione profondissima, decide di fuggire dalla società nella quale vive, dove tutto è dominato dall'egoismo, dall'indifferenza e dal denaro con cui tutto si compra, anche i sentimenti più puri. Diventerà un clown… che prende gli schiaffi, su un palcoscenico circense che meglio di ogni altro si presta a far ridere del suo dolore e dal quale potrà gridare la sua ribellione. Ovviamente si tratta di un luogo dove attraverso la finzione si raccontano le verità della vita. Lo spettacolo, nasce da una storia che tanto ci ha ricordato il mondo del celebre Professor Unrat di Heinrich Mann, e della bella e provocante cantante Lola Lola, stella del Der Blaue Engel, dove il grande regista Josef von Sternberg, rese immortale Marlene Dietrich. Cattura l’attenzione sin dal primo momento, totalmente privo di quei vizi mattatoriali classici fatti di gigioneggiate o ammiccamenti, è fluido, raffinato, formalmente molto bello, di una bellezza quasi ipnotica ed ha, paradossalmente, il sapore dell’omonimo cocktail L'Angelo Azzurro (6/ 10 Gin , 3/10 Triple sec o Cointreau e 1/10 Blue Curaçao). La bella scena stilizzata che tanto ricorda Gordon Craig ed Appia è firmata da Mauro Carosi, rappresenta la pedana circolare mobile di un circo con grande panorama di fondo, su cui si stagliano i fantastici giochi di luce di Giovanni Grasso, che amplificano cromaticamente le emozioni che via via si manifestano in scena. Qui ben 11 attori vestiti in sontuosi abiti circensi realizzati da Odette Nicoletti, danno vita ad una pantomima squisita, formalmente impeccabile (con movimenti mimici curatissimi di Michele Monetta), su avvincenti e struggenti musiche e canzoni suonate dal vivo (composte da Germano Mazzocchetti). Un cast di lusso vede giganteggiare Roberto Sturno (Quello che prende gli schiaffi) a cui fa da controscena il formidabile ottuagenario Glauco Mauri (Papà Briquet, il direttore del circo), circondati da uno stuolo di validi artisti: la giunonica Barbara Begala (Mara, una domatrice di leoni), la flessuosa Lucia Nicolin (Leda, una ballerina muta), un palestrato David Paryla (Manuel, un acrobata), Stefano Sartore, Leonardo Aloi e Roberto Palermo (il trio di clown musicisti Jacky, Polly, Tilly), un sussequioso e viscido Marco Blanchi (Conte Mancini dei Guardamagna), un gaudente depravato Mauro Mandolini (Barone Regnard), ed un funzionale Paolo Benvenuto Vezzoso (Un Signore). Applausi lunghi e vibranti alla fine, ma composti e dignitosi, come lo spettacolo a cui abbiamo assistito.
Servo di scena
Metafora di una condizione scenica (ed umana) immobile, il testo ha 30 anni e narra di vicende di settant’anni fa, ma la perizia artigianale di una scrittura brillante ed incisiva, ne fanno un evergreen. Andato in scena nel 1980, in gran parte autobiografico, Harwood fu a lungo servo di scena di Sir Donald Wolfit, The Dresser divenne nel 1983 un gran film, con la regia di Peter Yates, interpretato da Albert Finney (premiato al Festival di Berlino) e da Tom Courtenay (cinque candidature agli Oscar). Ma non si trattò certo di un caso fortuito per il grande autore sudafricano che ha saputo firmare in seguito successi per la scena e per lo schermo come Diamanti a colazione, A torto o a ragione, Il pianista (Oscar), Oliver Twist, L'amore ai tempi del colera, Lo scafandro e la farfalla (premiato a Cannes), Australia, ecc.
La messa in scena a cui abbiamo assistito al Teatro Chiabrera di Savona, è prodotta dal CTB Teatro Stabile di Brescia e dal Teatro de Gli Incamminati, per la regia di Franco Branciaroli (che interpreta Sir), ben coadiuvato da Tommaso Cardarelli (che interpreta Norman). Che dirne? Pur riconoscendo una buona misura interpretativa ai due attori, lo spettacolo risulta piuttosto lento, e risente della mancanza di una regia da fuori, che governi saldamente il tutto e dia l’input vincente, secondo quella che è la buona norma scenica: per avere buoni frutti occorre potare, potare, potare.
Ancora una volta segnaliamo un vizio, che è di tanti attori italiani, i quali, avendo conquistato una solida fama lavorando diretti dai più grandi registi (nel caso di Branciaroli, Patrice Chereau, Aldo Trionfo, Carmelo Bene, Virginio Puecher, Luca Ronconi, Maurizio Scaparro, Luigi Squarzina, Gianfranco de Bosio), decidono che è venuto il momento di essere registi di loro stessi.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la gloria, anziché raddoppiare, si dimezza. Ma tant’é.
Questo poco salutare ritorno al passato sta cancellando quel poco che resta dell’epoca d’oro del teatro italiano: l’età dei grandi registi, razza che oggi sembra quasi sparita dalla circolazione.
Il teatro italiano è vecchio, ma anziché pensare ad un rinnovamento sembra compiacersi di questo. E cerca conforto nel vezzo di rifugiarsi nel dietro le quinte della scena di un secolo fa, che vuole identica a quella di oggi. Solo vecchiume che puzza di muffa, non testimonianza di una immortalità e di una universalità che probabilmente sono esistite solo nell’ipocrita retorica buonista dei temini liceali. Una domanda, retorica anch’essa: come mai la scena italiana non riesce a rinnovarsi, mentre ci riescono invece benissimo il cinema, la musica, la televisione? Per non dire del teatro anglosassone, naturalmente.
La commedia “Spirito Allegro” di Noel Coward, al suo debutto nel 1941, in piena Seconda Guerra Mondiale, fu criticata per il poco rispetto con cui trattava la morte. Ma il pubblico ne decretò lo stesso il successo, stabilendo addirittura il record di allora di ben 1997 repliche consecutive.Pari successo è stato quello che ha decretato il pubblico estivo della 44^ Edizione della Rassegna Teatrale di Borgio Verezzi ad una divertentissima messa in scena di questa pièce, proposta dalla coproduzione della Bis Tremila s.r.l. e di Molise Spettacoli.Il merito del successo va a Nino Marino, che ne ha adattato il soggetto portandolo dagli originari anni quaranta londinesi all’Italia d’oggi, ed al regista Patrick Rossi Gastaldi, che, forte della sua esperienza televisiva, ha utilizzato i meccanismi comici tipici del cabaret del piccolo schermo, differenziando le provenienze dei personaggi con forti connotazioni regionali. Insomma una riuscitissima operazione di risciacquo dei panni inglesi nel Mediterraneo odierno; con solo qualche eco passatista nella bella scena di Andrea Bianchi, la living room di una casa elegante piena di riferimenti anni ’40, mentre risultano fondamentalmente attuali, con minimi richiami d’epoca, i costumi di Giovanni Ciacci. La storia, originariamente ambientata in Inghilterra, si svolge nella casa di un noto scrittore e sceneggiatore cinematografico, vedovo da anni, interpretato da un superlativo Corrado Tedeschi (una vera forza della natura, ma mai sopra le righe), che qui risiede con la sua seconda moglie, una misurata Antonella Piccolo e la cameriera, una caricaturale Marina Marchione. Maniacale nella documentazione di tutto quello su cui scriverà, il nostro protagonista, da vero professionista perfezionista, accingendosi alla stesura di un lavoro sul paranormale, organizza, con una coppia di amici di famiglia, l’agitato Mario Patané e la calmissima Alessandra Toniutti, una seduta spiritica con una medium, l’esuberante Marioletta Bideri, con il segreto intento di smascherare i trucchi da lei usati. Ma in realtà, durante la seduta, sarà evocato involontariamente lo spirito della prima moglie, una divertente e divertita Debora Caprioglio. Il fantasma nella casa si trova benissimo e non perde occasione per cercare di creare occasioni funeree propizie per ricongiungersi con l’amato consorte. Come è facile immaginare la convivenza delle due donne (l’ex moglie fantasma e l’attuale) è a dir poco problematica. La risoluzione, drammatica, sarà in realtà vissuta dal protagonista con una leggerezza ed un’ironia inconsuete, tanto da far gridare i benpensanti dell’epoca allo scandalo.Il bilancio finale è senz’altro positivo: una commedia ironica e raffinata, mai banale o volgare, piena di colpi di scena con un’evoluzione della trama e un finale certo non convenzionale, ma plausibilissimo. La messa in scena fa della gradevolezza e della fluidità la sua forza. Grande conferma delle capacità di mattatore di Tedeschi, che però non eccede mai nell’istrionico, ben coadiuvato dalla freschezza dell’allestimento “televisivo” (ma qui il termine è un pregio) di Rossi Gastaldi.Risate continue, applausi a scena aperta e chiamate interminabili alla fine per premiare lo spettacolo.Applausi che noi idealmente estendiamo al buon livello di tutti gli spettacoli della rassegna di quest’anno.
Giovanni Testori, uno dei massimi scrittori contemporanei italiani, fondando il 29 ottobre 1983 il Teatro degli Incamminati, coproduttore oggi, insieme al Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, della pièce brechtiana Vita di Galileo, in programma al Teatro Chiabrera di Savona, per la sobria regia di Antonio Calenda, le essenziali ma dignitose scene di Pier Paolo Bisleri, i costumi funzionali di Elena Mannini, le weilleggianti musiche di Germano Mazzocchetti, le stupende luci di Gigi Saccomandi e la magnifica interpretazione di Franco Branciaroli, così si esprime "...si chiama Gli Incamminati, è una cooperativa che prende il nome da una celebre Accademia d'Arte del Seicento bolognese. Ma non è il richiamo a quei pittori a interessarci, quanto l'indicazione programmatica contenuta nel sostantivo: di uomini in cammino verso la fondazione di una forma teatrale dell'oggi." Quanto di questo manifesto programmatico è stato realizzato in questi 24 anni? Certo molto fu fatto quando, lui vivente, il grande teatro di Testori era il fulcro del Piccolo Teatro (La Maria Brasca), di Visconti (Rocco e i suoi Fratelli, L'Arialda, La Monaca di Monza), del Salone Pier Lombardo di Franco Parenti (Ambleto, Macbetto, Edipus), della Compagnia dell'Arca (Interrogatorio a Maria, Factum Est), del Teatro degli Incamminati (Post Hamlet, Erodiade, In Exitu, con la memorabile rappresentazione alla Stazione Centrale di Milano, Confiteor, Verbo', Sfaust, Sdisore'), della Compagnia dei Magazzini di Tiezzi e Lombardi (I tre lai, postuma). C’era sperimentalismo, rottura dei consueti equilibri linguistici, rivisitazione dei temi religiosi, osservati mediante il dualismo tra spirito e corpo. Era l’epoca in cui, si ripercorreva un sodalizio tra autore e compagnia, che è essenziale perchè si abbiano momenti alti di teatro, si pensi a Molière e la nascente Comédie Française, al Teatro d’Arte di Stanislavskij e Cechov, a Pirandello ed alla sua Compagnia, al Berliner Ensemble e Brecht stesso. Ma dopo la sua scomparsa? Questo secondo me è il punto su cui ragionare, dopo aver visto lo spettacolo. Ragionamento che ho cominciato a fare da subito, fin dal ritorno a casa, in compagnia di molti spettatori, approfittando della corsa sul comodissimo Teatrobus, messo a disposizione gratuitamente dall’ACTS (che certo va lodata per questo, almeno una volta). Non si tratta solo di un fatto formale e linguistico, e già di ciò ce ne sarebbe abbastanza, ma sostanziale. La forma-teatro a cui abbiamo assistito (in quella bella serata di teatro, vogliamo sottolineare subito a scanso di equivoci), sta molto più nella scia della tradizione del grande teatro mattatoriale di quanto non fosse all’origine l’intenzione di Brecht. Del teatro politico, di quello epico, della drammaturgia didascalica e della recitazione straniata, in cui solo la ragione viene sollecitata e guardata con sospetto la catarsi dell’ingannevole emozione, un tempo accolti e teorizzati come grandi momenti fondativi di una nuova estetica teatrale, comunista ed antiborghese, poco è rimasto, e ciò che è sopravvissuto è stato abbondantemente rimasticato e digerito. Sopravvive qualche didascalia parlata, il siparietto cantato, insomma tutto quello che, in maniera formale ed indolore, è stato acquisito dal fare teatro contemporaneo. Così inteso, Il Galileo, è oggi diventato un classico, e se è trattato con i guanti e la lente dell’entomologo, perde gran parte della sua forza dirompente. Il rischio di una omologazione è lì di fronte a noi. Un po’ come avviene per i brani musicali evergreen della musica leggera, o per gli standard della musica jazz. Si tratta di brani con i quali ci si cimenta e se ne dà la propria versione, per far sì che i fans apprezzino l’arrangiamento o la freschezza dell’improvvisazione virtuosistica. Il Galileo, così ridotto, resta una delle prove con cui il grande attore si può, quindi si deve, cimentare. Fin qui tutto bene. Infatti, oltre alla straordinaria prova d’attore di Franco Branciaroli, risultano molto bravi e simpatici Giulia Beraldo nella parte di Andrea Sarti bambino e Giorgio Lanza in quella di Sagredo; ma di buon livello è certamente tutto il cast, composto da Lucia Ragni (Signora Sarti), Alessandro Albertin (Procuratore), Nicole Vignola (Virginia, sua figlia), Giancarlo Cortesi (Cardinale Barberini), Daniele Griggio (Cardinale Bellarmino), Tommaso Cardarelli (Frate Fulgenzio), Jacopo Venturiero (Andrea Sarti giovane) Lello Abate (Padre Cristoforo Clavio), ben amalgamati, senza che nessuno sia mai sopra le righe. Di questo va dato merito al regista Calenda. Ma poi? Cosa serve per far sì che sopravviva quella carica dirompente che è stato Il Galileo di Brecht? La risposta è semplice e chiara, anche se la sua attuazione è molto difficile. Serve una dirompente invenzione registica, che sappia restituire al pubblico d’oggi, nelle forme teatrali dell'oggi, la stessa densità di emozioni ed innovazioni che fu provata dal pubblico di allora, che comprese subito la portata epocale dell’operazione di Brecht. Questo, oggettivamente, nello spettacolo manca e, di ciò, ci sentiamo incontentabilmente orfani. Un teatro a tesi non basta a riempire la scena, per discutere è meglio un dibattito. Anche se si tratta di tesi importanti, in cui vive il conflitto tra scienza e potere, tra etica e ricerca, tra responsabilità civile e salvezza personale. E, tutto sommato, sapere se, in una precedente versione, Brecht assolvesse o meno il suo Galileo per l’abiura, è la cosa meno interessante su cui disquisire. “Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”, direbbe Fabrizio Faber De André. Su cosa, allora, mi sono sentito coinvolto? Per me, quello che resta della serata è la straordinaria dimensione umana di Galileo (metafora di ogni uomo che onestamente sente l’urgenza di confrontarsi col mistero), un geniale eterno ragazzo curioso, che scopre per il gusto di scoprire, che prova a fare scienza con la stessa serietà con cui un ragazzo gioca con altri ragazzi, rispettando fin che può le regole del gioco. Ma se il gioco si fa duro, da vero duro, capisce che le regole fino a quel punto usate, sono insufficienti. A giocare così non c’è più gusto, e ne inventa delle altre, migliori. E si offende se, sapendo che le sue nuove regole sono le migliori possibili, scopre che altri preferiscono quelle vecchie, che sono errate, con le quali ci si diverte molto meno ed in modo sbagliato. Per lui questo è una mancanza di onestà, quella di chi vuole vincere a tutti i costi, anche barando, per ribadire che è lui il capo, e se non gli dai ragione ti mena. Galilei sconvolge tutto l’ordine costituito, ma nel suo entusiasmo non se ne avvede fino in fondo. Ha la forza dell’ingenuità di dire che il re è nudo, ma senza alcuna consapevolezza che si tratti di qualcosa di veramente delicato, di politicamente scorretto. Ma, il vero capolavoro, è l’abiura, motivata con la paura della punizione, del dolore fisico che gli possono procurare gli strumenti di tortura che gli vengono mostrati. Sta in castigo come un ragazzo in punizione, a cui però gli si porta di nascosto da mangiare, perchè è discolo, ma in fondo è di buon cuore. Galilei l’ha fatta grossa, ma non è del tutto consapevole di questo. A lui interessa la fisica, come un gioco geniale e se, mentre gioca, la palla scappa dal campo e spacca un vetro, lui dice di non essere colpevole, perchè non l’ha fatto apposta, ma soprattutto perchè, probabilmente, era la finestra che non doveva stare lì. Se la fisica sconvolge la teologia, che i teologi la risistemino. E che diamine, sono lì per quello. D’altronde quella teologia disturba la sua fisica. Lui la fisica l’ha fatta e disfatta tante volte, tutti i giorni, che barba deve essere la teologia, se ogni giorno non c’è niente di nuovo da scoprire. Ma, in realtà, nella teologia c’è sempre tutto da scoprire, ogni giorno un pezzo in più, un pezzo nuovo. La condanna, allora, non è verso la Chiesa, strumentalmente ridotta da qualcuno solo ad ottuso strumento di potere, ma verso chi, anche al suo interno, condanna chi pensa che le teorie provate da Galileo possano insidiare il proprio status quo. La condanna è verso chi ha l’ottusità di pensarsi come un corpo immobile, (mentre tutto gira), che ha come credo quello di mantenere tutto il più fermo ed immutabile possibile. Questa è la vera dimensione del peccato. Dio va continuamente riscoperto, reinventato, non è la misura dell’inconoscibile umano, ma è la risposta al suo bisogno di confrontarsi col Mistero, cioè del conoscibile infinito, della enormità infinita del conoscibile. Se Dio è visto come un dato acquisito una volta per tutte, con un recapito che sta oltre le sfere celesti rotanti di cristallo a cui sono appesi i mondi, egli diventa, allora, misura della nostra infinita pigrizia e paura. Il nuovo peccato originale, in quanto si sceglie, un’altra volta, di fare a meno di lui, di poter fare da soli senza di lui. Galileo ha, nel gusto della scoperta scientifica (o teologica), l’impeto di un bambino che corre felice in una pianura sterminata. Lo fa perchè vuole conoscerla e la percorrere perchè non può fare a meno di scoprirla. Questo rimprovera Galileo ai teologi che non vogliono guardare nel telescopio: la perdita del desiderio della continua scoperta (di Dio e del Cosmo), misura certa della fede (in Dio e nella Scienza). In ciò Galileo è un vero uomo di fede, che nel cosmo sente la voce di Dio che lo chiama a scoprirlo. Ecco perchè dice di essere figlio della Chiesa; quei falsi e pigri teologi, al massimo ne sono figliastri. Galilei non è, allora solo un grande fisico, ma è anche un grande teologo, poiché avvicina all’uomo il recapito del Dio lontano e gliene dà uno assai più coinvolgente: nel cuore di ogni uomo.
Vite private (Private lives), andato in scena nella 46^ edizione del Festival Teatrale di Borgio Verezzi, nasce da quel genio poliedrico che fu Sir Noël Peirce Coward (compositore di canzoni, produttore, commediografo, attore e regista britannico). Abbiamo assistito alla prima nazionale della messa in scena fattane, in coproduzione, per La Contrada Teatro Stabile di Trieste e The Big One Production, dal regista di Giovanni De Feudis, con musiche originali di Alessandro Mancuso, nell’interpretazione maiuscola dei protagonisti Corrado Tedeschi (Elyot) e Benedicta Boccoli (Amanda), ben assecondati da Emy Bergamo ed Andrea Garinei. La storia è elementare. Siamo in una Francia stile Costa Azzurra, anni Trenta, anglo-olografica, dove due facoltosi ex coniugi, divorziati da cinque anni, si sono entrambi recentemente risposati. Il destino vuole che per la loro nuova luna di miele abbiano prenotato nello stesso albergo ed alloggino in camere adiacenti, con il terrazzo in comune. Il loro disappunto iniziale si trasforma inaspettatamente in gioia quando, dopo l’inevitabile lunga serie di comici eventi ed esilaranti colpi di scena, scoprono di essere ancora innamorati. Conseguenza? Fuga a Parigi, con inseguimento dei rispettivi coniugi, che in questa avventura scoprono, tra l’altro, di avere molto in comune. La chiusura è agrodolce: nonostante il ritorno di fiamma, nessuno dei due è realmente cambiato, litigi, rancori, incomprensioni… Chissà se il ciclo si ripeterà all’infinito? Maestro di ogni più sottile sfumatura dei segreti scenici, il teatro di Coward è teatro attoriale per eccellenza, fatto per dare la possibilità a due grandi mattatori (e a due ottimi comprimari), di darsi in pasto al pubblico con una voluttà esibitiva intensa, ma che mai supera il buon gusto di un erotismo raffinato ed alluso, confinando sempre nell’angolo ogni eccesso di pruderie, a cui molto cinema e tv ci hanno ormai abituato. Merito anche di una prosa arguta, spigliata, che mette abilmente in mostra, in modo compiaciuto, un quadro della corruzione dell'alta società attraverso un fuoco di sbarramento di battute al vetriolo. Ma Coward non cade mai nel facile tranello della battuta brillante fine a se stessa, fatta per conquistare la pancia del pubblico più dozzinale. C’è uno spessore insospettato dietro la lineare leggibilità della sua commedia di costume che la nobilita quasi a commedia di genere: quella delle invidiabili vite agiate delle coppie snob del periodo interbellico del secolo scorso, fatte di una leggera piacevolezza che in apparenza non richiede eccesso di sforzo interpretativo. Ma non è così ed il pubblico, che ride di gusto per due ore ininterrotte, va comunque detto, ci si trova incagliato dentro. Molte coppie hanno problemi analoghi, anche se il portafoglio titoli che possiedono è certamente assai più ridotto di quello dei due protagonisti. Chi ha detto che quando si ride molto si pensa poco, ha preso, in questo caso, un grande abbaglio. E’ forse un caso che tra i registi che hanno tratto film dalle commedie di Coward, ci siano Alfred Hitchcock, David Lean, Ernest Lubitsch, Stephan Elliott… ecc.?
Nessun commento:
Posta un commento