sabato 20 dicembre 2025

Corso di storia della musica: 1250 ca. CANTO DELLE LAVANDAIE DEL VOMERO

Il "Canto delle Lavandaie del Vomero": Da Inno d’Amore a Grido di Libertà

Nel cuore del patrimonio sonoro napoletano esiste un brano che, da oltre sette secoli, incarna l’anima resiliente della città: il "Canto delle Lavandaie del Vomero". Risalente con molta probabilità al 1250 circa (sebbene alcuni studiosi ne posticipino la genesi al XIV secolo), questa composizione rappresenta una delle testimonianze più antiche e potenti della cultura popolare partenopea.

Nato originariamente come un delicato canto d’amore, il brano ha attraversato i secoli trasformandosi in un simbolo di resistenza politica, capace di unire l'arcaico rito del lavaggio dei panni alla lotta contro l'oppressore.

Il significato nascosto: la "Moccafora" e la protesta

Ciò che rende il "Canto delle Lavandaie" un pezzo unico nella storia della musica è la sua evoluzione semantica. Durante il periodo della dominazione aragonese, il testo si caricò di significati simbolici e di una forte valenza di protesta sociale.

In questo contesto, il termine "moccafora" (il fazzoletto utilizzato per asciugare il sudore o coprire il capo) smette di essere un semplice oggetto d’uso quotidiano per diventare una metafora della terra perduta o calpestata. Le lavandaie, strofinando i panni sulle pietre del Vomero, non stavano solo compiendo un gesto domestico, ma intonavano un lamento collettivo contro il potere straniero, rivendicando il possesso del proprio territorio.

Il Revival degli anni '70: La Nuova Compagnia di Canto Popolare

Se oggi il grande pubblico conosce e apprezza questa melodia, il merito va alla straordinaria operazione di recupero culturale avvenuta nei primi anni '70. A riportare alla luce il brano fu la Nuova Compagnia di Canto Popolare (NCCP), nel momento di massimo splendore della propria carriera.

Il gruppo ebbe il merito di trasformare un reperto storico in un successo contemporaneo, capace di parlare alle nuove generazioni senza snaturarne l'essenza.

Il rigore filologico di Roberto De Simone

Dietro la bellezza struggente dell’arrangiamento che tutti conosciamo c’è la mano di Roberto De Simone. Il Maestro, con il suo consueto rigore filologico, riuscì a ripulire il canto dalle incrostazioni del tempo, restituendogli la sua cadenza ritmica originale, simile a un battito cardiaco o al colpo ritmato dei panni sull'acqua.

Grazie a questo lavoro di ricerca, il "Canto delle Lavandaie del Vomero" è uscito dagli archivi storici per entrare di diritto nel canone della musica d’autore, restando ancora oggi un esempio insuperato di come la tradizione possa farsi avanguardia.


Perché ascoltarlo oggi?

Il brano non è solo un esercizio di stile, ma un ponte che collega il Medioevo alla Napoli moderna. La sua struttura ipnotica e il suo testo intriso di nostalgia e orgoglio lo rendono un ascolto obbligatorio per chiunque voglia comprendere le radici della canzone napoletana.

https://youtu.be/6Z0hqQP1jDQ


1250 ca. CANTO DELLE LAVANDAIE DEL VOMERO

https://youtu.be/6Z0hqQP1jDQ

1250 ca. CANTO DELLE LAVANDAIE DEL VOMERO Canto d'amore risalente al Duecento (secondo altri, al XIV secolo) divenuto canto di protesta contro la dominazione aragonese, in cui il fazzoletto (moccafora) assume il significato di terra. Fatto conoscere dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare nel loro momento di massima popolarità all'inizio degli anni '70. Al solito, l'arrangiamento è dovuto al rigore filologico di Roberto De Simone.

Corso di storia della musica: 1200 ca. JESCE SOLE anonimo


"Jesce Sole": Storia e Segreti della Prima Canzone Napoletana di Sempre

Le radici della musica partenopea affondano in un passato millenario, ma se dobbiamo rintracciare l'atto di nascita ufficiale del repertorio classico napoletano, il nome è uno solo: "Jesce Sole". Risalente al 1200, questa antica filastrocca non è solo un brano musicale, ma il primo frammento d'arte in vernacolo che ha dato il via alla leggenda della canzone napoletana nel mondo.

Le origini alla corte di Federico II

La storia di "Jesce Sole" ci riporta all'epoca di Federico II di Svevia, lo "Stupor Mundi", che fece del Sud Italia un centro di irradiazione culturale senza precedenti. Fu in questo clima di fermento artistico che, dalle balze del Vomero, iniziò a levarsi questo canto semplice e potente.

Originariamente eseguita con il suono di calascioni, tamburelli e arpe, la canzone nasce come un'invocazione solare. Gli studiosi vi leggono una chiara reminiscenza deistica: un'arcaica funzione religioso-rituale decaduta, trasformata in un inno all'astro che dona la vita.

Il salvataggio di Gian Battista Basile

Se oggi possiamo ancora leggere e cantare questi versi, lo dobbiamo a Gian Battista Basile (1575-1632). L'autore, pilastro della letteratura barocca, ne citò i primi due versi nella lettera "All'uneco sciammeggiante", per poi trascriverne il testo integrale nella quarta giornata del suo capolavoro, il "Cunto de li cunti".

Senza questa testimonianza scritta, probabilmente avremmo perso la "madre" di tutte le canzoni napoletane, sopravvissuta per secoli solo grazie alla voce dei piccoli scugnizzi che la utilizzavano come colonna sonora dei loro giochi di strada.

L’evoluzione del testo: tra lumache e varianti d’autore

Nel corso dei secoli, "Jesce Sole" ha subito profonde trasformazioni. Studiosi e musicisti del calibro di Guglielmo Cottrau, Gaetano Spagnuolo e Ferdinando Galiani ne hanno rielaborato i versi, adattandoli alla sensibilità delle varie epoche.

Curiosità: Secondo l'ipotesi di Luigi Serio, la filastrocca era anticamente legata a un gioco infantile: i bambini la cantavano alla vista di una "maruzza" (lumaca), recitando il celebre "jesce jesce corna ca mammeta te scorna".

Le interpretazioni moderne da non perdere

Nonostante le sue radici medievali, "Jesce Sole" ha mantenuto intatta la sua forza emotiva, arrivando fino ai giorni nostri con versioni memorabili che ne hanno preservato l'anima arcaica:

  1. Antonella D'Agostino (1976): Un'interpretazione magistrale contenuta nell'album dell'opera teatrale "La Gatta Cenerentola".

  2. Antonio Sorrentino (1989): Una versione intensa contenuta nell'album omonimo, che restituisce dignità e modernità alla nenia.

"Jesce Sole" resta, in definitiva, la testimonianza cronologica più antica della lingua napoletana in musica: un frammento di storia che continua a splendere dopo oltre ottocento anni.


Gian Battista Basile 1575

Gian Battista Basile, conosciuto anche come Giambattista Basile, è stato un autore, poeta e scrittore italiano, nato nel 1575 a Napoli, nel Regno di Napoli (oggi Italia), e deceduto nel 1632 nella stessa città. Basile è noto soprattutto per aver scritto una raccolta di racconti popolari intitolata "Lo cunto de li cunti" (Il racconto dei racconti), conosciuta anche come "Pentamerone". Questa raccolta è composta da cinquanta favole, alcune delle quali erano storie tradizionali della cultura popolare napoletana, raccolte e riadattate da Basile."Lo cunto de li cunti" è una raccolta di fiabe ricche di magia, fantasia, e spesso contengono elementi fantastici e sorprendenti. Le storie sono ricche di personaggi fantastici come principi, principesse, streghe e creature mistiche. Queste fiabe hanno influenzato molti autori successivi e sono state fonte d'ispirazione per opere letterarie e culturali nel corso dei secoli. Basile è considerato uno dei precursori delle fiabe europee, contribuendo alla raccolta e alla preservazione delle tradizioni orali del folclore italiano. Le sue storie hanno avuto un impatto duraturo sulla letteratura mondiale e sono state adattate in numerose versioni teatrali, cinematografiche e letterarie.

1200 ca. JESCE SOLE

https://youtu.be/aVgfUle-z7U

"Jesce sole" è, in assoluto, la prima canzone del repertorio classico partenopeo (risalente al 1200) ed è un'antica filastrocca conservataci da Gian Battista Basile (1575-1632), il quale, nella lettera "All'uneco sciammeggiante" ne riferisce i soli due versi iniziali, dandone, poi, l'intero testo nella quarta giornata del "Cunto de li cunti".

"Jesce sole", canzone cantata al suono di calascioni, tamburelli e arpe, nasce nel periodo di Federico II di Svevia, quando il re radunava a se gli uomini d'ingegno e gli artisti. Dalle balze del Vomero si levava il canto semplice, ricco di reminescenze deistiche, all'astro che dà vita il giorno. "Jesce sole" è un'invocazione al sole, decaduta da un'arcaica funzionalità religioso-rituale. Ma, nonostante ciò, la filastrocca è stata conservata e tramandata nel tempo da piccoli scugnizzi partenopei che l'hanno cantata nei loro giochi. Naturalmente, nel corso dei secoli, i versi di "Jesce sole" hanno subito dei cambiamenti, attraverso diverse rielaborazioni (Guglielmo Cottrau, Gaetano Spagnuolo, Ferdinando Galiani, ecc.) che hanno portato, come risultato finale, la "Jesce sole" dei giorni nostri. Certo è che la cantilena napoletana è in assoluto il primo brano del ricco patrimonio musicale partenopeo. Non esiste, infatti, alcuna testimonianza di filastrocche, con versi in vernacolo napoletano, che precedono, in ordine cronologico, questa sorta di nenia. In definitiva, "Jesce sole" è il primo frammento di canzone napoletana pervenutoci. Vogliamo, infine, ricordare, tra le tante ipotesi fatte, la versione di Luigi Serio, il quale ha affermato che la filastrocca era cantata dai ragazzini napoletani quando vedevano 'na maruzza (lumaca) jesce jesce corna ca mammeta te scorna. Due sono le versioni migliori di questo brano: l'interpretazione di Antonella D'Agostino per l'album "La Gatta Cenerentola" (1976) e quella di Antonio Sorrentino nell'album omonimo (1989).