ALICE
Il 45° FESTIVAL DI BORGIO VEREZZI apre con il botto, con uno spettacolo di alto profilo, Alice, che il regista Matteo Tarasco (che già nel festival dello scorso anno avevamo apprezzato in una regia goldoniana molto sui generis quella de Il Burbero Benefico con Mariano Rigillo) ha tratto dal capolavoro di Lewis Carrol, assecondato con dedizione rara da un poker attoriale composto da Romina Mondello (Alice), Salvatore Rancatore (il Cappellaio Matto, il Cuoco, il Bruco, la Seconda Alice, Tweedledum e Humpty Dumpty), Giulia Galiani (March la Lepre, la Regina Rossa, la Quarta Alice, il Bianconiglio, la Regina Bianca e il Cerbiatto) e Odette Piscitelli (la Regina di cuori, la Duchessa, la Terza Alice, Tweedledee e l'Unicorno). Tra le tante chiavi di lettura dell’opera, Tarasco sceglie quella di considerare Alice come sorella rovesciata di Amleto. Se infatti lui si rifugia nella finzione della follia, lei si rifugia nella follia della finzione, dove tutto può essere o non essere. E che di cambio di prospettiva si tratti appare subito chiaro fin dall’inizio dalla sorprendente scenografia, che assegna il ruolo di quarta parete al soffitto del claustrofobico ambiente che evoca, a metà tra una cella di carcere e di manicomio, costringendo gli attori a sfidare non solo le acrobazie verbali che il testo richiede ma la forza di gravità stessa, facendoci tornare alla mente la seconda avanguardia romana di Giorgio Barberio Corsetti e quella napoletana del primo Mario Martone di Falso Movimento. Ci scapperebbe di parlare di terza avanguardia borgioverezzina (dopo le coraggiose scelte del direttore artistico del Festival, Stefano Delfino) se il termine non fosse abusato al ribasso, ma ce ne guardiamo bene, per non indurre i nostri lettori (a cui auguriamo di assistere allo spettacolo) ad intenderlo solo come sinonimo di fantasiosa visionarietà alla ricerca del nuovo per il nuovo. Qui il nuovo e la visionarietà ci sono eccome, ma direi che predominano la coerenza stilistica ed il rigore. Romina Mondello, forte di una ventennale carriera cinematografica e televisiva (La Piovra, Palermo Milano solo andata, Highlander, Ama il tuo nemico, I guardiani del cielo, Le ragazze di Piazza di Spagna, Orient Express, Delitti Imperfetti – R.I.S., Milano Palermo – Il Ritorno) torna al teatro, dove ha già dato ottima prova di sé (Pulcinella, Le notti bianche, Donne informate sui fatti), con la statura consolidata dell’attrice matura per una grande prova d’interprete e raggiunge questo con l’umiltà di una dedizione vocale e fisica (ai limiti dell’acrobatico) che l’aderenza all’insolita prospettiva scenografica e verbale richiedono, per 70 tesissimi minuti.
FAUST
Non ci sono risultati chiari i termini dell’operazione tentata da Glauco Mauri a proposito del “Faust” di J. W. Goethe, rappresentata presso il Teatro G. Chiabrera di Savona. Il pur lunghissimo spettacolo, propostoci nell’allestimento della Compagnia Mauri-Sturno, è, in definitiva, un non troppo riuscito collage antologico di scene tratte dalle due parti del capolavoro tedesco. Ma si fa fatica a capire secondo quali criteri è accaduto ciò. Certo non quello di favorire l’intelligibilità dell’opera. Vezzo culturale oggi imperdonabile per chi, riproponendo certi classici, assolve il dovere di tenere in vita i grandi capolavori della letteratura teatrale (non del teatro si badi bene), che altrimenti resterebbero lettera morta per la maggior parte ed appannaggio, tutt’al più, dei soli studiosi specialisti. La grande complessità della storia è imperniata sulla figura di Faust che, al termine della sua vita, nel fare i conti con se stesso, non trova un significato reale alla sua esistenza, un attimo che sia valso la pena di essere vissuto. Nell'udire tali riflessioni, compare il diavolo, che propone il più classico dei patti: in cambio della "felicità", cedere la propria anima, una volta morto. Faust accetta, ma concederà l’anima solo quando affermerà di voler fermare la bellezza di un attimo. Prende così il via la nuova vita di Faust, nuovamente giovane, affiancato dal diavolo, che ha preso le sue sembianze da vecchio. Se non diamo per scontata, a priori, un’ottima conoscenza della trama dell’opera da parte dello spettatore, assistere alla rappresentazione della riduzione di Mauri diventa un poco disorientante. Ma vi sono altri elementi che ci rendono dubbiosi in questo allestimento. Ad esempio la scelta di tradurre in prosa qualcosa che, nell’originale, è in versi. Pensiamo per un attimo a che giudizio daremmo se assistessimo alla rappresentazione teatrale di una riduzione in prosa tedesca di alcune canti della Divina Commedia. Ci sono delle scusanti, è vero: la dimensione gigantesca dell’opera (21.000 versi circa, che, nell’impresa titanica della rappresentazione integrale, realizzata da Chereau, durava 22 ore!), e la straordinaria varietà di scene e di situazioni che richiederebbe un allestimento in cui prevarrebbero gli effetti speciali sul resto e sul testo (ma forse Goethe ci aveva pensato, o no?). Tuttavia, sia la correttezza (la traduzione è di Dario Del Corno), sia la sapienza riduttiva (effettuata dallo stesso Del Corno in collaborazione con Glauco Mauri) qui ci sembrano un poco carenti. Nello spettacolo non mancano punti forti, intendiamoci: le suggestive e grandiose scene di Mauro Carosi ed i brillanti colorati costumi di Odette Nicoletti, le musiche funzionali di Germano Mazzocchetti, le ottime doti interpretative di Glauco Mauri, assecondato con dedizione filiale da Roberto Sturno. Sono tutti elementi positivi, tuttavia, alla fine della rappresentazione, resta una sensazione di occasione perduta, che proviamo a spiegare. Intanto diciamo subito che, i rari momenti in cui la scena si svuota del carisma del mattatore, essa resta “vuota”, in quanto tutta l’operazione è basata sulla centralità del protagonista. Il cast degli interpreti, tecnicamente di buon livello, per gli standards della scena italiana, (Cristina Arnone, Marco Blanchi, Matteo Cicogna, Mino Francesco Manni, Alessandro e Francantonio Menin, Simone Pieroni, Dora Romano, Alessandro Scavone), nella regia di Mauri, non ha né una reale personalità né una vera coralità, ma fa tappezzeria e scompare sullo sfondo dell’anonimato. Certo, chi può negare ad un grande della scena di allestire ciò che vuole e come vuole, per di più rischiando il “proprio” capitale? Ci mancherebbe altro. D’altronde sembra la deriva intrapresa da tanti altri grandi della scena italiana (Albertazzi, Bosetti, Lavia, ecc.) che, insofferenti dell’abbraccio impegnativo e senza sconti di un regista, reputandolo insopportabile e soffocante, quando non dannoso, hanno deciso di ballare da soli. Ma avanti di questo passo il teatro muore. Spesso, a questa non nuova considerazione, ci siamo sentiti rispondere che solo così si può fornire un prodotto sicuro e... “riempire” i teatri. Ma sono certi che è questo ciò che il pubblico veramente desidera? Fino a quando durerà questa soggezione psicologica della platea alla forma del mostro sacro, indipendentemente dalla sostanza di ciò che offre? Infatti cosa desidera, ed offre, un mattatore? Un grande testo classico sicuro, senza rischi di una novità che potrà non piacere, senza nessuna intenzione di assecondare qualche velleità registica (si pensi all’involuzione di Ronconi), con in più la possibilità di ruotare il cast in modo che tutto sia mirato al proprio indiscutibile dominio in scena. Mauri non fa Faust, ma il grande vecchio bianco per antico pelo, quasidannato mapoisalvato, non fa Mefistofele ma un diavoletto-Charlot tantosimpatico (mentre Dio parla con un effetto di reverbero che lo fa sembrare costipato ed incatarrato), cioè il grandissimo interprete Glauco Mauri ha finito per fare solo l’istrione Glauco Mauri, tanto gli basta per strappare l’applauso. Per chi è andato a vedere il grande Faust di Goethe, scusate, ma non basta proprio. Tra l’altro, accanto ad alcune suggestive soluzioni (una nuvola magistrale, una salita al cielo con strascico gigantista, un teatrino del potere ingessato in se stesso, ecc.), non mancano alcune scivolate di gusto, involontariamente comiche (una cecità ricercata con un gesto come se si giocasse a mosca cieca, un homunculus con una voce da particella di sodio della pubblicità, una sfilata di Filemone e Bauci con il Parkinson, ecc.). Vi sono poi i limiti oggettivi. Per esempio, perchè scegliere per interpretare Margherita, che dovrebbe essere quanto di più delizioso ed attraente esiste in una ragazza, emblema della seduttività dell’eterno femminino, un’attrice, pur brava, ma non certo dotata di una adeguata avvenenza? E che dire delle scene della passione amorosa, che ci aspettavamo travolgenti e cariche di seduttività, recitate con il fuoco della passione che potrebbero avere due ghiaccioli? Ma Mauri è un genio, saprà riscattarsi da par suo, già si intravede una intrigante proposta per la prossima stagione. Allora, al di là dello spettacolo, solo in parte riuscito del Faust di Mauri, anche in conclusione di una stagione che abbiamo fedelmente seguito e recensito (cosa ormai rara nella stampa locale, che si limita a fare il trailer patinato di ciò che vedremo, ma non il commento con un giudizio motivato, di ciò che abbiamo visto), il discorso non può che allargarsi allo stato della scena italiana, che è stato così fedelmente rappresentato dal dignitosissimo cartellone del Teatro Chiabrera. Non vorremmo essere troppo ottimisti, ma ci sembra, per la prima volta dopo tanti anni, che oggi siamo al punto di non ritorno di un grande cambiamento, ancora bloccato, però, con tenacia, da chi, un giorno artefice di una grande stagione culturale, detiene ed amministra delle rendite di posizione non più giustificabili. Sta al pubblico dare la spinta decisiva, scegliendo di dire basta a quel sottile odore di roba stantia che oggi ancora aleggia nell’aria teatrale. Non basta più coprirlo (ma fino a quando sarà ancora possibile?) con l’azione di un deodorante invasivo e dalla confezione seducente. Non sarebbe più semplice aprire la finestra per cambiare aria e portare in discarica la merce scaduta ed avariata? Ma per farlo ci vuole coraggio. Anche la mano pubblica può e deve fare la sua parte. Il tempo del pacchetto culturale completo, all inclusive (magari scontato), offerto in blocco prendereolasciare, ci sembra destinato a scomparire, somiglia troppo ad un voto politico senza preferenza in cui tutto è deciso a priori dalla segreteria del partito. Che il pubblico lo possa dire chiaramente, colle sue scelte effettuate, cosa funziona e cosa no, senza nessuna diatriba sui massimi sistemi culturali, ma semplicemente, decidendo a quali spettacoli andare e a quali no. E se il problema fosse quello di far quadrare i conti, si usi la consolidata formula di introdurre, sulla scorta delle altre civilissime nazioni, anche il biglietto last minute (ventiquattrore prima), con cui completare il placement dei posti vuoti, a prezzo fortemente scontato, unica risorsa per chi ama il teatro, ma ne è tenuto lontano da una congiuntura economica negativa e da un mercato dello show business, che impone il prezzo di un biglietto pari, almeno, a quello di mezza giornata di salario.